Enciclopedia giuridica

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Comunione

Il diritto di proprietà o gli altri diritti reali possono appartenere a più persone: si parla allora di comunione di proprietà (o comproprietà ), di comunione di superficie (o cosuperficie), di comunione di usufrutto (o cousufrutto) e così via, mentre la corrispondente situazione di fatto sulla cosa è il compossesso. Ev una situazione diversa da quella alla quale danno luogo i diritti reali (v.) su cosa altrui: là una medesima cosa forma oggetto di più diritti aventi, ciascuno, un diverso contenuto (la proprietà di un soggetto e, inoltre, il diritto di superficie o di servitù ecc. di altri soggetti); qui si tratta, invece, del fenomeno per cui sulla medesima cosa coesistono diritti di più persone, ma aventi uguale contenuto (la proprietà di più persone, l’enfiteusi di più persone ecc.). La comunione è , dunque, la situazione per la quale la proprietà o altro diritto reale spetta in comune a più persone (art. 1100 c.c.).

amministratore giudiziario della comunione: l’art. 1105, comma 4o, c.c., dispone che, se non si prendono i provvedimenti necessari per l’amministrazione della cosa comune o non si forma una maggioranza, o se la deliberazione adottata non viene eseguita, ciascun partecipante può ricorrere all’autorità giudiziaria, che provvede in camera di consiglio e può anche nominare un amministratore. La norma postula l’ammissibilità di altri provvedimenti, diversi dalla nomina di un amministratore, che il giudice può adottare, su richiesta di singoli partecipanti: il giudice può , come in dottrina si ammette, decidere egli stesso quegli atti di amministrazione della cosa comune che, per inerzia o per i contrasti fra loro insorti, i partecipanti non hanno deliberato. Lo specifico potere di nominare un amministratore si rivela, a questo modo, quale manifestazione di un più ampio potere che al giudice è dato di esercitare sull’amministrazione della comunione: ampio al punto da consentirgli di sostituirsi ai partecipanti nella stessa gestione della cosa comune. Le possibilità di intervento del giudice non si esauriscono nelle ipotesi dell’art. 1105, comma 4o, c.c.: il giudice può , nella comunione, sindacare il merito delle deliberazioni dei partecipanti; può , su impugnazione dei dissenzienti, annullare ogni atto di ordinaria amministrazione che sia gravemente pregiudizievole alla cosa comune (art. 1109 c.c.); può , del pari, annullare le deliberazioni, relative ad innovazioni, che non appaiono dirette al miglioramento della cosa comune o a renderne più comodo o redditizio il godimento o che comportino spese eccessivamente gravose (artt. 1108 e 1109 c.c.); può , infine, annullare lo stesso regolamento della comunione ove esso non tenda al miglior godimento della cosa comune (artt. 1106 e 1107 c.c.). Fra le disposizioni ora menzionate e quella dell’art. 1105, comma 4o, c.c., esiste un nesso evidente: grave pregiudizio può , infatti, derivare alla cosa comune non soltanto da deliberazioni che, per il loro contenuto, siano positivamente idonee a determinarlo; esso può , altresì, derivare dalla mancata adozione, da parte dei partecipanti alla comunione, di deliberazioni idonee ad evitarlo. A norma dell’art. 1105, comma 4o, c.c., il giudice può , anzitutto, prendere egli stesso, in sostituzione dei partecipanti inerti, i provvedimenti necessari per l’amministrazione della cosa comune: egli può , cioè , positivamente realizzare, nell’ipotesi di inerzia dei partecipanti, quell’esigenza di evitare il grave pregiudizio della cosa comune che, annullando le deliberazioni pregiudizievoli, realizza negativamente. Il giudice può , inoltre, nominare un amministratore: ciò che egli farà , si precisa in dottrina, nei casi più gravi, cioè quando proprio non se ne potrebbe fare a meno; quando, si può aggiungere, l’inerzia o la discordia dei partecipanti, anziche´ limitarsi a specifici atti di amministrazione (ai quali il giudice possa provvedere in loro vece), si sia rivelata tale da impedire loro il compimento di qualsiasi atto di amministrazione. L’amministratore giudiziario può essere un partecipante o un estraneo, ed ha la stessa posizione di quello nominato dalle parti. Il provvedimento del giudice non dà vita ad una forma di amministrazione della cosa comune diversa da quella, prevista dall’art. 1106, comma 2o, c.c., alla quale gli stessi partecipanti potrebbero dare vita. Non si è , dunque, in presenza di una amministrazione giudiziaria del genere di quella regolata, per le società di capitali, dall’art. 2409 c.c.: l’amministratore nominato dal tribunale è là pubblico ufficiale; deve rendere al tribunale, e non ai soci, il conto della sua gestione; al tribunale deve chiedere l’autorizzazione per il compimento degli atti di straordinaria amministrazione (artt. 92 – 94 disp. att., richiamati dall’art. 103 disp. att.). Qui, invece, l’intervento del giudice si esaurisce nell’atto di nomina: l’amministratore nominato dal giudice è , non diversamente da quello nominato dalle parti, mandatario (v. mandato) dei partecipanti; a costoro dovrà rendere conto della sua amministrazione; costoro potranno, una volta superata l’inerzia o ritrovato l’accordo, impartirgli direttive o sostituirsi a lui nel deliberare atti di amministrazione o, infine, revocarlo. Il provvedimento giudiziario di nomina di un amministratore si rivela, in tal modo, come qualitativamente non diverso da quegli altri provvedimenti necessari per l’amministrazione della cosa comune che, nell’inerzia dei partecipanti, il tribunale può adottare. La nomina di un amministratore da parte del giudice è provvedimento sostitutivo di una corrispondente deliberazione, di ordinaria amministrazione, dei partecipanti: come il giudice può , sostituendosi alle parti inerti o discordi, prendere ogni provvedimento necessario per l’amministrazione della cosa comune, così egli può prendere quello fra i prov vedimenti necessari per l’amministrazione della cosa comune, il quale consista nella nomina di un amministratore. Il giudice si limiterà a designare la persona dell’amministratore quando le parti, concordi sulla necessità di un comunione comunione, siano discordi sulla designazione della persona (o quando, come nel caso del condominio di edifici con più di quattro condomini, la presenza di un amministratore è obbligatoria: art. 1129 c.c.); egli valuterà , invece, la stessa opportunità della nomina di un amministratore quando le parti, per la loro inerzia o per i contrasti fra essi insorti, si siano rivelate incapaci di provvedere direttamente all’amministrazione. In ciò risiede, in ultima analisi, il valore della precisazione finale dell’art. 1105, comma 4o, c.c.: dettando che l’autorità giudiziaria può anche nominare un amministratore, la norma chiarisce che tra i provvedimenti necessari per l’amministrazione della cosa comune, che il giudice può adottare in sostituzione dei partecipanti inerti o discordi, è compreso anche il provvedimento, ai partecipanti consentito dal secondo comma dell’art. 1106 c.c., della delega dell’amministrazione ad uno di essi o ad un estraneo.

amministrazione della comunione: le facoltà di godimento e di disposizione della cosa spettano ai partecipanti alla comunione in modo, per certi aspetti, individuale e, per altri aspetti, collettivo. Vanno tenute distinte cinque situazioni, relative le prime due alla facoltà di godimento, le successive due alla facoltà di disposizione, l’ultima alla difesa del diritto: a) l’uso della cosa comune. In linea di principio spetta, separatamente, a ciascun partecipante, il quale non deve però alterarne la destinazione economica e deve comportarsi in modo da non impedire l’uso da parte di ciascun altro partecipante (art. 1102 c.c.). Così ciascuno dei comproprietari di un cortile o di una strada privata può transitarvi e parcheggiare, ma in modo da non impedire il transito e il parcheggio degli altri. Non sempre, tuttavia, la natura del bene comune è tale da consentire l’uso individuale di ciascun partecipante: se si tratta di un appartamento, e i comproprietari non intendono coabitarlo, il godimento della cosa comune consisterà nel darlo in locazione e nel ripartirsi il canone secondo le rispettive quote (o nell’accordarsi perche´ uno lo abiti e corrisponda agli altri le quote loro spettanti del canone di locazione). Le modalità di uso della cosa comune possono anche formare materia di apposito regolamento, a norma dell’art. 1106, comma 1o, c.c.; b) l’amministrazione della cosa comune. Spetta collettivamente ai partecipanti, che deliberano a maggioranza, ma a maggioranza di quote (art. 1105 c.c.), non di numero: perciò il singolo partecipante, che detenga una quota superiore al cinquanta per cento, può imporre la propria volontà degli altri, anche se costoro sono numericamente in maggioranza. Tuttavia, per le innovazioni (come il mutamento della destinazione economica della cosa comune, che da cortile, ad esempio, si vuole trasformare in suolo edificatorio) e per gli atti di straordinaria amministrazione (ad esempio, pavimentare il cortile o la strada in terra battuta, dotare di nuovi servizi l’appartamento) occorre una doppia maggioranza: è necessaria la maggioranza di numero dei partecipanti, che rappresentino almeno i due terzi del valore della cosa (art. 1108, commi 1o e 2o, c.c.). Il principio di maggioranza ha però un correttivo, nella comunione, che è affatto privo di riscontro nelle deliberazioni delle associazioni (v.) e delle società (v.): le dichiarazioni sia di ordinaria sia di straordinaria amministrazione possono essere impugnate dai partecipanti dissenzienti davanti all’autorità giudiziaria, che può annullare le prime se sono gravemente pregiudizievoli per la cosa comune e le seconde se lo sono per l’interesse di singoli partecipanti o se comportino una spesa eccessivamente gravosa o se, comunque, non appaiono dirette a rendere più comodo o più redditizio il godimento (art. 1109 c.c.). Non si tratta, dunque, solo della impugnazione di deliberazioni illegali, contrarie alla legge o all’eventuale regolamento, così come è previsto per associazioni e per società : l’autorità giudiziaria è qui chiamata ad esercitare un vero e proprio sindacato di merito delle decisioni della maggioranza. Sempre a maggioranza può essere formato un regolamento per l’ordinaria amministrazione e per il miglior godimento della cosa comune (art. 1106, comma 1o, c.c.); e può altresì essere nominato un amministratore della cosa comune, scelto fra i partecipanti oppure terzo (art. 1106, comma 2o, c.c.). Ev opinione comune che si tratti, in ogni caso, di un mandatario dei partecipanti (l’art. 1106, comma 2o, c.c., si esprime in termini di delega dell’amministrazione), al quale i mandanti potranno, sempre a maggioranza, impartire istruzioni, o potranno sostituirsi nel compimento di atti di amministrazione, così come può fare qualsiasi mandante nei confronti del mandatario. La rappresentanza esterna, sostanziale o processuale, dovrà essergli espressamente attribuita, secondo i principi generali in tema di mandato (art. 1704 c.c.). Egli rappresenterà i singoli partecipanti, dei quali dovrà spendere il nome, non già la comunione in se´, che non è soggetto di diritto da essi distinto; ne´ può qui parlarsi di rappresentanza collettiva, come è nel caso del condominio (v.) degli edifici, sulla base della specifica norma dell’art. 1131 c.c.. Per le obbligazioni contratte per la cosa comune i singoli partecipanti rispondono in solido, come si argomenta dall’art. 1115 c.c., in conformità del resto con i principi generali sulle obbligazioni con pluralità di debitori (v. obbligazioni, comunione solidali) (art. 1294 c.c.); c) gli atti di disposizione della propria quota: ciascun partecipante può , senza dover richiedere il consenso degli altri partecipanti, disporne liberamente (art. 1103); d) gli atti di disposizione dell’intera cosa comune richiedono, invece, il consenso unanime dei partecipanti (art. 1108, comma 3o, c.c.); non la si può vendere, o costituire su di essa diritti reali altrui o garanzie reali, se tutti non sono d’accordo; e) ciascuno dei partecipanti può agire contro i terzi per la tutela della cosa comune, sia con azioni petitorie sia con azioni possessorie.

annullabilità delle deliberazioni della comunione: ciascuno dei componenti la minoranza dissenziente può impugnare davanti all’autorità giudiziaria le deliberazioni della maggioranza: 1) nel caso previsto dal secondo comma dell’art. 1105, se la deliberazione è gravemente pregiudizievole alla cosa comune; 2) se non è stata osservata la disposizione del terzo comma dell’art. 1105 n. 3 c.c.; 3) se la deliberazione relativa a innovazioni o ad altri atti eccedenti l’ordinaria amministrazione è in contrasto con le norme del primo e del secondo comma dell’art. 1108 c.c.. L’impugnazione deve essere proposta, sotto pena di decadenza (artt. 2964 ss. c.c.) entro trenta giorni dalla deliberazione. Per gli assenti il termine decorre dal giorno in cui è stata loro comunicata la deliberazione. In pendenza del giudizio, l’autorità giudiziaria può ordinare la sospensione del provvedimento deliberato. (art. 1109 c.c.). V. anche assemblea dei partecipanti alla comunione.

assemblea dei partecipanti alla comunione: entro la comunione sono presenti forme sia pure embrionali di organizzazione. L’art. 1105, comma 3o, c.c. stabilisce che per la validità delle deliberazioni della maggioranza si richiede che tutti i partecipanti siano preventivamente informati dell’oggetto della deliberazione; e, sebbene la norma non parli che di preventiva informazione, è opinione comune che essa imponga, come condizione di validità della deliberazione, una vera e propria convocazione di assemblea. Lo rivela l’ultimo comma dell’art. 1109 c.c., con il prevedere una decorrenza diversa dal termine per impugnare a seconda che si tratti di partecipanti dissenzienti o assenti; ciò che presuppone che la deliberazione sia stata adottata a seguito di una riunione collegiale dei partecipanti (una formale assemblea è poi prevista dagli artt. 1135 ss. c.c. per il condominio degli edifici). Il legislatore si è pronunciato, con la norma dell’art. 1105, comma 3o, c.c., sulla sorte delle deliberazioni prese dalla maggioranza all’insaputa della minoranza. Non ha preso in considerazione la diversa ipotesi nella quale i partecipanti, tutti informati dell’oggetto della deliberazione, abbiano espresso a maggioranza la propria volontà al di fuori di una riunione assembleare: si è rappresentato solo il caso, che l’esperienza aveva segnalato, di una maggioranza che, magari rappresentata da una sola persona, deliberi all’insaputa della minoranza. Il metodo collegiale è certamente superfluo per le deliberazioni unanimi: è risolutiva in tal senso la norma dettata dall’art. 1109 c.c.; a nessun altro questa attribuisce la facoltà di impugnare le deliberazioni prese con inosservanza del metodo collegiale se non alla minoranza dissenziente. La norma si riferisce, testualmente, alle deliberazioni per le quali non sia stata osservata la disposizione del terzo comma dell’art. 1105 (art. 1109 n. 2 c.c.): a quella, cioè , tra le possibili violazioni del metodo collegiale la quale consista nel fatto che la maggioranza ha deliberato all’insaputa della minoranza. E, per testuale applicazione dell’art. 1109, n. 2 c.c., la minoranza potrà in questa ipotesi impugnare la deliberazione. La norma va per analogia applicata anche all’ipotesi in cui, pur essendo stati tutti i partecipanti preventivamente informati dell’oggetto della deliberazione, la maggioranza si sia formata attraverso una separata e successiva raccolta di voti, espressi per corrispondenza o in altri simili modi. Anche in questa ipotesi, pertanto, la minoranza potrà , lamentando di non essere stata in grado di opporre le proprie ragioni alla maggioranza, impugnare la deliberazione (e sempre che l’impugnativa non si ritenga ad essa preclusa dal fatto che essa ha, sia pure con voto contrario, partecipato alla deliberazione non collegiale). Ma diversa è l’ipotesi in cui i partecipanti, informati dell’oggetto della deliberazione abbiano tutti fatto pervenire, al di fuori di una riunione collegiale, un voto di medesimo contenuto: qui nessuno potrà impugnare la deliberazione, nessuno essendo dissenziente ed essendo il potere di impugnare concesso solo alla minoranza dissenziente. Del resto, anche nel condominio, per il quale è espressamente prevista una assemblea dei partecipanti, una deliberazione assembleare può essere sostituita, anche se si tratta di materie attribuite dalla legge alla competenza dell’assemblea, da una convenzione fra i partecipanti, conclusa al di fuori dell’assemblea. Si è qui fatto riferimento a deliberazioni per avventura prese all’unanimità su oggetto per il quale sarebbe bastata la volontà della maggioranza; un’altra norma rivela comunione questa volta in modo esplicito comunione la superfluità del metodo collegiale per le deliberazioni necessariamente unanimi. A maggioranza possono essere adottate di regola le deliberazioni attinenti all’ordinaria (art. 1105, comma 2o, c.c.) o alla straordinaria amministrazione (art. 1108, commi 1o e 2o, c.c.), oltre che all’approvazione del regolamento della comunione (art. 1106 c.c.). Ev , invece, necessario il consenso di tutti i partecipanti per gli atti di alienazione o di costituzione di diritti reali sul fondo comune (art. 1108, comma 3o, c.c.); norma che presenta anch’essa una eccezione). Orbene, per uno di tali atti di costituzione di diritti reali sul fondo comune, in particolare, per la costituzione di servitù , l’art. 1059 c.c. esplicitamente dispone che la servitù può essere dai condomini concessa sul fondo indiviso unitamente o separatamente: laddove è evidente che l’atto costitutivo della servitù , potendo risultare da separate manifestazioni di volontà , non deve essere collegialmente deliberato.

contratto con comunione di scopo: è una categoria di contratti menzionata negli artt. 1420, 1446, 1459, 1466 c.c., che rivela i propri caratteri nel confronto con l’antitetica categoria cosiddetta dei contratti di scambio. In questi le parti perseguono scopi contrapposti e la prestazione di ciascuna va direttamente ed esclusivamente a vantaggio dell’altra parte; nei contratti associativi o con comunione di scopo la prestazione di ciascuna è , invece, preordinata al conseguimento d’uno scopo comune a tutte le parti. Essa non dà ad alcuna parte un vantaggio, un godimento, immediato, ma, attraverso una successiva utilizzazione, finisce indirettamente con l’andare a vantaggio di tutte le parti, anche della parte che presta. Da ciò deriva che, a differenza di quanto avviene nei contratti di scambio, l’interesse di ciascuna parte non è senz’altro realizzato dall’esecuzione delle prestazioni cui sono obbligate le altre parti: esso si realizza solo attraverso lo svolgimento di quella ulteriore attività cui le prestazioni delle parti sono preordinate. Le discipline delle diverse figure che si sogliono comprendere nella categoria dei contratti con comunione di scopo, lungi dall’essere riconducibili a principi comuni, appaiono sensibilmente diverse tra loro: esse differiscono in ragione, essenzialmente, delle diverse modalità di quella intermedia utilizzazione delle prestazioni, successiva alla loro esecuzione da parte dei contraenti e antecedente al conseguimento del risultato da essi perseguito, nella quale si è individuata una delle note salienti della categoria. Risulta diversa, in particolare, la condizione giuridica nella quale, nel corso dell’attività di esecuzione del contratto, si trovano i beni conferiti dalle parti (ed i loro successivi incrementi). Questi possono dare luogo alla costituzione di un fondo comune o essere, invece, l’oggetto di attribuzione di una parte a favore dell’altro; ed il fondo comune può , a sua volta, sottostare al regime della mera comunione (v.) o assumere, invece, i caratteri di un patrimonio autonomo, sottratto all’azione esecutiva dei creditori personali delle parti e vincolato al perseguimento dello scopo comune. L’attività di esecuzione del contratto può , d’altro canto, essere esercitata in comune dai contraenti o essere, al contrario, la prerogativa d’uno solo di essi; e l’esercizio in comune può , a sua volta, manifestarsi nei soli rapporti interni o, oltre che in questi, anche nei rapporti esterni. Si parla, nel primo caso, di associazioni meramente interne: il vincolo associativo non ha rilevanza per i terzi, i quali acquistano diritti ed assumono obbligazioni nei confronti di quella sola delle parti che abbia con essi contrattato. Rientrano in questa categoria l’associazione professionale (v. associazione, comunione professionale) e il raggruppamento temporaneo di imprese (v.). Si parla, nel secondo caso, di associazioni con efficacia esterna: le parti si presentano, di fronte ai terzi, come un gruppo unitario, nel nome del quale vengono posti in essere gli atti inerenti all’attività di esecuzione del contratto. Le più elementari modalità di utilizzazione delle prestazioni si riscontrano in una figura bilaterale, l’associazione in partecipazione (v. associazione, comunione in partecipazione) (artt. 2549 – 2553 c.c.), che è al limite, e secondo alcuni supera il limite, della opposta categoria dei contratti di scambio: in essa non c’è , neppure nei rapporti interni, l’esercizio di un’attività in comune dei contraenti, essendo la gestione dell’impresa o dell’affare riservata all’associante; ne´ c’è costituzione d’un fondo comune, entrando l’apporto dell’associato nel patrimonio dell’associazione. E la tradizionale collocazione di questa figura tra i contratti associativi si giustifica solo per la comunione di aspettative esistente, in ordine ai risultati dell’impresa o dell’affare, tra associato e associante e per il carattere strumentale che, rispetto al conseguimento di tali risultati, assume l’apporto dell’associato. Prive di rilevanza per i terzi e con fondo comune sottoposto al regime della mera comunione sono anche alcune figure plurilaterali: i consorzi tra proprietari di cui agli artt. 918 – 920 c.c.; i consorzi industriali senza attività esterna di cui agli artt. 2602 – 2611 c.c.. Il regime della comunione è , quanto ai primi, esplicitamente richiamato dall’art. 920 c.c.; l’assenza di un fondo dotato del carattere di un patrimonio autonomo è , quanto ai secondi, desumibile a contrariis dall’art. 2614 c.c., che tale carattere attribuisce al fondo comune dei consorzi con attività esterna. Le modalità della intermedia utilizzazione delle prestazioni raggiungono, invece, un maggiore grado di complessità nelle associazioni in senso stretto, nelle società , siano esse di persone o di capitali, lucrative o cooperative, nei consorzi industriali con attività esterna. Qui le prestazioni delle parti compongono, anche se si tratta di associazione non riconosciuta (art. 37 c.c.) o di società di persone (artt. 2267, 2268, 2304 c.c.), un fondo comune dotato dei caratteri di un patrimonio autonomo (così, quanto ai consorzi industriali con attività esterna, l’art. 2614 c.c.). L’attività di esecuzione del contratto è dalle parti esercitata in comune sia, mediante una unitaria organizzazione, nei rapporti interni sia, attraverso l’unitaria rappresentanza del gruppo, nei rapporti esterni (così, in virtù degli artt. 36, comma 2o, e 38 c.c., anche nelle associazioni non riconosciute; come, in virtù dell’art. 2226 c.c., nelle società di persone e, in virtù degli artt. 2613 e 2615 c.c., nei consorzi industriali); e qui, a differenza di quanto accade nei rapporti contrattuali in precedenza menzionati, il vincolo associativo ha comunque, anche quando le parti si propongano, con delle interne pattuizioni, di tenerlo occulto ai terzi, rilevanza esterna.

comunione dei beni fra coniugi: v. comunione fra coniugi.

comunione di azienda ereditaria: v. comunione di solo godimento.

comunione di impresa: v. comunione di solo godimento; azienda, comunione coniugale.

comunione di solo godimento: della comunione di diritti reali si parla, nel c.c., come della comunione a scopo di godimento. L’espressione figura nell’art. 2248 c.c.: dopo avere definito, con l’art. 2247 c.c., il contratto di società , il c.c. precisa, nell’articolo successivo, che la comunione costituita (leggi: comunione volontaria) o mantenuta (leggi: comunione incidentale) al solo scopo del godimento di una o più cose è regolata dalle norme del titolo VII del libro III, ossia dalle disposizioni sulla comunione. La norma assolve la funzione di delimitare gli ambiti di applicazione rispettivi delle norme sulla comunione, contenute nel terzo libro, e delle norme sulle società (v.), contenute nel quinto libro (oltre che di quelle sulle associazioni (v.), contenute nel primo libro). La contrapposizione è fra diversi modi di utilizzazione delle cose: nelle società i beni conferiti dalle parti vengono utilizzati per l’esercizio in comune di una attività economica allo scopo di dividerne gli utili (e nelle associazioni i contributi dei soci e i beni acquistati con questi sono, a norma dell’art. 37 c.c., vincolati anch’essi allo svolgimento di una attività , diretta a realizzare i fini ideali del gruppo). Nella comunione comunione manca, invece, questo specifico intento e c’è il solo scopo del godimento di una o più cose (art. 2248 c.c.). La norma lascia zone d’ombra. Si possono trarre dalla giurisprudenza alcuni casi paradigmatici: a) un imprenditore commerciale muore e i suoi figli ne ereditano l’azienda (v.), ossia il complesso dei beni che l’imprenditore defunto aveva organizzato per l’esercizio della sua impresa (art. 2555 c.c.). Fra i figli si instaura, per effetto della successione ereditaria, un rapporto di comunione (incidentale): essi diventano comproprietari dell’azienda commerciale ereditata. Se l’azienda venisse data in affitto ad un terzo e gli eredi si dividessero il corrispettivo dell’affitto, non ci sarebbe alcun dubbio: gli eredi si limiterebbero al solo godimento dei beni comuni, ed il loro interno rapporto resterebbe un semplice rapporto di comunione, regolato dal terzo libro del c.c.. Ma si supponga che gli eredi proseguano, essi stessi, l’esercizio dell’impresa paterna: si potrà ancora parlare di comunione oppure si dovrà dire che fra gli eredi si è costituita una società? b) Più persone comperano insieme una azienda commerciale e, quindi, ne diventano comproprietari (comunione volontaria); oppure comperano insieme singoli beni con i quali formano un’azienda comune; dopo di che, senza che fra essi sia intervenuto alcun esplicito contratto di società, i comproprietari intraprendono, con l’azienda comune, l’esercizio dell’impresa: c’è , fra essi, ancora comunione oppure c’è società ? Si può così ragionare: i coeredi del primo caso o i comproprietari del secondo caso danno vita, nei termini dell’art. 2247 c.c., all’esercizio in comune di un’attività economica allo scopo di dividerne gli utili. Dal loro comportamento si desume una comune volontà : essi hanno deciso di utilizzare i beni comuni per l’esercizio di una impresa e li hanno, per ciò stesso, conferiti in società . Per concludere un contratto di società non occorre alcuna particolare forma: il contratto può anche essere tacito, ossia desumersi dal comportamento delle parti. La conclusione è , dunque, questa: siamo in presenza di una società di fatto, ossia di una società tacitamente costituita. Ma si può fare, ed è stato più volte fatto, un altro ragionamento; l’art. 2247 c.c. definisce la società come il contratto mediante il quale due o più persone conferiscono beni o servizi ecc.; e conferire beni significa, come si desume dalla disciplina dei vari tipi di società , destinarli alla costituzione di un patrimonio sociale autonomo. La natura contrattuale del vincolo sociale implica, da questo diverso punto di vista, che anche il conferimento dei beni in società deve essere l’effetto di un accordo delle parti, ossia di una loro dichiarazione di volontà . Non basta, per aversi società , che più persone utilizzino i beni comuni per l’esercizio di una impresa: occorre, ulteriormente, che essi abbiano voluto quel mutamento che deriva, nella condizione giuridica dei beni, dal conferimento di questi in società ; occorre, in altre parole, che essi abbiano voluto la loro trasformazione da beni in comunione, quali erano in origine, a patrimonio sociale autonomo. La conclusione alla quale conduce questo diverso ragionamento è che non ogni impresa collettiva a scopo di lucro dà luogo, necessariamente, ad una società. Ricorre una comunione di impresa, secondo coloro che seguono questo orientamento, quando più persone utilizzano i beni, dei quali sono comproprietari, esercitando in comune un’attività di impresa e, tuttavia, fra esse non è intercorso un contratto, quale il contratto di società , diretto a modificare la condizione giuridica dei beni utilizzati, i quali restano, perciò , beni in comunione. Alla base di questi contrastanti orientamenti c’è un conflitto fra contrapposte serie di interessi. La teoria della comunione di impresa muove da una esigenza di difesa dell’autonomia contrattuale: nessuno, questo è il principio generale che si invoca, può subire modificazioni nella propria sfera giuridica contro o, comunque, indipendentemente dalla propria volontà . E in questo, come in altri casi, invocare l’autonomia contrattuale significa difendere le ragioni della proprietà : il comproprietario resta tale, e non si trasforma in socio (ciò che, fra l’altro, lo espone al rischio di essere escluso dalla società a norma dell’art. 2286 c.c. e con le conseguenze di cui all’art. 2289 c.c.), fino a quando questa trasformazione non risulti da lui voluta; i beni di cui egli è comproprietario restano beni in comproprietà , e non si trasformano in patrimonio sociale, fino a quando non risulti che in tal senso si è manifestata la sua volontà . Il punto è , tuttavia, che il sacrificio del diritto di proprietà è qui imposto dall’art. 2248 c.c., il quale limita l’applicazione delle norme del libro della proprietà ; e la limita all’ipotesi della comunione costituita o mantenuta al solo scopo del godimento di una o più cose. Viene, in tal modo, sancita l’inammissibilità di una comunione di impresa: viene escluso che più persone possano considerarsi fra loro legate, se utilizzano i beni comuni per l’esercizio di una impresa, da un rapporto di semplice comunione. Quando c’è , fra le parti, l’intento di esercitare un’impresa, allora le norme del libro della proprietà non possono più applicarsi: si dovranno applicare, necessariamente, le norme del quinto libro e, in particolare, quelle sulle società. Ne´ vale obiettare che il contratto di società non si forma se manca l’accordo delle parti: la presenza, fra le parti, della concorde volontà di esercitare in comune una attività economica allo scopo di dividerne gli utili è quanto basta per avere, fra esse, un contratto di società . Il fatto che l’accordo delle parti non si sia manifestato anche in relazione alla condizione giuridica dei beni utilizzati per l’esercizio in comune dell’impresa (il fatto, nei casi esaminati, che le parti non ne avessero voluto la trasformazione da beni in comunione a patrimonio sociale autonomo) non impedisce di parlare di contratto di società : il mutamento della condizione giuridica dei beni si realizza anche se non voluto dalle parti, ed anche se le parti lo avessero espressamente escluso. Esso si realizza qui come effetto legale del contratto di società , secondo il principio generale di cui all’art. 1374 c.c.. La cosiddetta comunione di impresa è , dunque, società di fatto. Sennonche´ l’art. 2251 c.c. rende la società di fatto ammissibile in linea di principio; inammissibile per l’ipotesi in cui i soci di fatto conferiscano beni immobili in proprietà o in godimento ultranovennale. Che cosa accade quando la cosiddetta comunione di impresa cada su beni immobili? si dovrà dire che il contratto di società è nullo per mancanza della forma scritta, con la conseguenza che il socio potrà , in qualsiasi momento, far dichiarare dal giudice la nullità del contratto e riacquistare la piena disponibilità dell’immobile? e con l’ulteriore conseguenza che i suoi creditori particolari potranno anch’essi, previa dichiarazione di nullità del contratto sociale, far valere le proprie ragioni su quell’immobile? C’è , dunque, un conflitto fra gli artt. 2248 e 2251 c.c.; ma c’è anche la possibilità di superare questo conflitto con il ricorso al principio generale dell’art. 1367 c.c., secondo il quale, nel dubbio, il contratto e le singole clausole devono interpretarsi nel senso in cui possono avere qualche effetto, anziche´ in quello secondo cui non ne avrebbero alcuno. Sulla base di questo criterio interpretativo si dovrà dire che il tacito conferimento in società dei beni immobili non potrà essere inteso come conferimento in proprietà , giacche´ in tal caso il contratto di società non produrrebbe alcun effetto; non potrà neppure, per la medesima ragione, essere inteso come conferimento in godimento a tempo indeterminato: si dovrà concludere di essere in presenza di un contratto di società di durata novennale, essendo questa, nel silenzio delle parti riguardo alla durata della società , la massima durata compatibile, a norma dell’art. 1350 n. 9 c.c., con la mancanza della forma scritta. La giurisprudenza ha mitigato il rigore dell’art. 2248 c.c. stabilendo che la comunione incidentale ereditaria di una azienda commerciale si trasforma in società irregolare fra i suoi eredi solo quando vi sia la prova che fra tutti i partecipanti alla comunione ereditaria si sia raggiunto un accordo stabile e duraturo per la continuazione dell’esercizio aziendale, con la conseguenza che deve escludersi l’esistenza di una società irregolare nell’esercizio anche continuato di una azienda ereditaria comune qualora le parti si siano limitate a continuare collettivamente la gestione dell’azienda in attesa di cederla o di procedere alla sua divisione. La gestione comune dell’azienda ereditaria è , in questi casi, attuata a fini di semplice conservazione della ricchezza, e non allo scopo, richiesto dall’art. 2247 c.c. per l’esistenza di una società , di produrre, e dividere fra le parti, nuova ricchezza. Si è in presenza di uno scopo pur sempre qualificabile come scopo di solo godimento ai sensi dell’art. 2248 c.c., dal momento che, nei casi menzionati, le parti intendevano vendere l’azienda ereditaria, o intendevano procedere alla sua divisione, e la gestivano, in attesa di trovare un compratore o di raggiungere un accordo per la divisione, solo al fine di evitare che, interrompendone la gestione, se ne disperdesse l’avviamento e ne diminuisse il valore di scambio o la capacità produttiva.

divisione nella comunione: lo stato di comunione è guardato con sfavore dalla legge, per gli ostacoli che oppone al mutamento di destinazione dei beni e alla loro circolazione, con conseguente pregiudizio (qui come nel caso della costituzione sul bene di diritti reali altrui) per la migliore utilizzazione della ricchezza e per lo sviluppo economico (salvo però il favore con cui lo guarda in situazioni particolari, come nel caso della comunione dei beni fra coniugi (v. comunione fra coniugi). Di qui la regola secondo la quale ciascuno dei partecipanti può , in ogni momento, domandare al giudice di pronunciare la divisione (v.) della cosa comune (art. 1111, comma 1o, c.c.), salvo che si tratti di cosa che, se divisa (si pensi al caso della strada privata in comunione), cesserebbe di servire all’uso cui è destinata (art. 1112 c.c.); mentre il patto fra i partecipanti di restare in comunione non può eccedere la durata di dieci anni (art. 1111 c.c.). La comunione comunione si attua, se possibile, in natura (art. 1114 c.c.), ossia trasformando le quote ideali dei partecipanti in parti fisiche della cosa (alla quota di un terzo, ad esempio, di un terreno di tre ettari corrisponderà un ettaro di terreno). Se il carattere del bene non consente o rende scomoda la divisione in natura (come dividere tra più persone un unico appartamento?), si procede o alla sua assegnazione in proprietà solitaria ad uno dei partecipanti, che verserà agli altri il valore in danaro della loro quota, oppure alla sua vendita con conseguente ripartizione del ricavato fra i partecipanti. Alla comunione comunione si applicano, in quanto compatibili, le norme sulla divisione ereditaria (art. 1116 c.c.).

comunione ereditaria: v. coeredità .

comunione forzosa: è una forma di comunione alla quale non ci si può sottrarre: così è nel condominio (v.) degli edifici; così nel caso della comunione del muro che il proprietario confinante può imporre all’altro proprietario che non abbia rispettato le distanze legali. Tra comunione incidentale e comunione comunione c’è questa differenza: la prima sorge senza che i partecipanti l’abbiano voluta, ma può essere sciolta per volontà dei partecipanti; la seconda è , invece, sottratta alla volontà di costoro.

comunione incidentale: è la comunione non dipendente dalla volontà dei partecipanti: più persone, ad esempio, ricevono il medesimo bene in eredità e si trovano, indipendentemente dalla loro volontà , ad esserne comproprietarie.

natura giuridica della comunione: la comunione è mera pluralità di soggetti in contitolarità di diritti; essa non dà vita ad un soggetto di diritto ulteriore rispetto ai singoli partecipanti; si può dire, anzi, che il concetto di comunione esprime l’antitesi al concetto di persona giuridica. I tentativi di dimostrare una autonoma soggettività giuridica della comunione appaiono inequivocabilmente contraddetti dal dettato legislativo: non c’è distinzione fra creditori comuni e creditori dei singoli partecipanti; vale la regola secondo la quale possono essere pignorati i beni indivisi (ossia in comproprietà ) anche quando non tutti i comproprietari sono obbligati verso il creditore (art. 599 c.p.c.): anche quando, in altre parole, non si tratta di una obbligazione assunta per esigenze di amministrazione della cosa comune (e, quindi, riferibile a tutti i comproprietari), ma si tratta di una obbligazione che si ricollega ad affari personali di singoli comproprietari. Il creditore del singolo comproprietario può , in tal modo, pignorare l’intera cosa comune e può , per soddisfare le proprie ragioni, provocarne la vendita forzata (art. 600, comma 2o, c.p.c.), con il risultato di dissolvere lo stato di comunione. Agli altri comproprietari non spetterà che una somma di danaro, corrispondente al valore delle loro quote. I diritti che l’art. 1113 c.c. riconosce, in caso di divisione dei beni comuni, ai creditori dei singoli partecipanti sono coerenti con questa condizione giuridica della comunione. Ben diversa è la condizione giuridica delle associazioni (v.), anche non riconosciute, e delle società (v.), anche di persone. I creditori particolari degli associati o dei soci non possono agire sui beni che formano il patrimonio dell’associazione o della società. Su questo patrimonio è impresso un vincolo di destinazione, ed un vincolo di destinazione efficace anche nei confronti dei terzi, che manca all’opposto sui beni in comunione. La presenza di una sia pure embrionale organizzazione collettiva, quale si manifesta con l’assemblea dei partecipanti deliberante a maggioranza, ha per altri aspetti indotto ad un accostamento della comunione alle associazioni e alle società . Per ricomprenderle tutte entro un medesimo genere si è talora fatto capo alla nozione di comunione di interessi, formulata come riassuntiva di tutte le situazioni giuridiche nelle quali viene in considerazione un interesse comune a più soggetti; ed è , da questo punto di vista, solo una classificazione interna alle comunioni di interessi, inidonea a modificare l’essenza del fenomeno, la distinzione tra comunioni contrattuali di interessi e comunioni non contrattuali.

quota della comunione: la coesistenza, sulla medesima cosa, dell’uguale diritto di più persone si realizza mediante la ideale scomposizione della cosa in una pluralità di quote. Considerata nella sua materialità , la cosa comune appartiene per intero a tutti i partecipanti: tutti ne sono comproprietari, o ne sono cousufruttuari e così via, senza possibilità di separare fisicamente parti della cosa spettanti all’uno o all’altro. Idealmente, invece, la cosa comune si scompone in tante quote quanti sono i partecipanti: la quota è una sua frazione ideale, determinata aritmeticamente: si può essere comproprietari o cousufruttuari di una cosa per un mezzo, per un terzo e così via. Essa segna la misura della partecipazione di ciascuno alla comunione: la proporzione secondo la quale ciascun partecipante concorre nei vantaggi e nei pesi inerenti alla cosa comune (art. 1101, comma 2o, c.c.). In linea di principio, le quote di partecipazione si presumono uguali (art. 1101, comma 1o, c.c.): perciò , se tre sono i comproprietari, ciascuno ha una quota pari ad un terzo; se sono due, la quota di ciascuno è di un mezzo. Ma le quote possono, per legge o per volontà delle parti, essere disuguali fra loro: così, se più persone sono state istituite eredi per quote disuguali, esse diventeranno comproprietarie del patrimonio ereditato secondo le medesime disuguali quote. La presunzione di uguaglianza delle quote opererà , invece, se più persone comperano assieme un bene sborsando ciascuna una somma diversa: qui, se le parti non stabiliscono diversamente, ciascuna avrà sul bene comune una uguale quota.

comunione tacita familiare: la comunione comunione consiste in un gruppo familiare convivente che lavora e guadagna nell’interesse comune. Allo scioglimento della comunione comunione a tutti i familiari spettano gli incrementi in proporzione (soprattutto) del lavoro prestato. La comunione comunione è una struttura gerarchica che attribuisce, a differenza dell’impresa familiare, tutti i poteri decisionali al capofamiglia. Oggi, alla luce dell’ultimo comma dell’art. 230 bis c.c., sono ancora disciplinate dagli usi solo le comunioni tacite nell’esercizio della agricoltura, purche´ compatibili con la disciplina dell’impresa familiare (v.). Di conseguenza, solo una minima parte della disciplina della comunione comunione continua ad essere regolata dagli usi, essendo stato gran parte dell’istituto in questione legalmente convertito in impresa familiare. Pertanto, sempre che sia rispettato il fondamentale principio della tutela paritaria del lavoro familiare, possono ancora trovare applicazione gli usi per gli aspetti non espressamente regolati dalla disciplina legislativa. Il rinvio alla disciplina dell’impresa familiare contenuto nell’ultimo comma della norma in questione svolge la funzione di fornire al familiare che fa parte della comunione comunione una tutela normativa minima inderogabile.

comunione volontaria: è una forma di comunione dipendente dalla volontà dei partecipanti alla comunione: più persone, ad esempio, comperano insieme un medesimo bene e ne diventano, per ciò stesso, comproprietarie.


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