Il diritto  di proprietà  o gli altri  diritti  reali  possono  appartenere a più persone:  si parla  allora  di comunione di proprietà  (o  comproprietà ), di comunione di superficie  (o  cosuperficie), di comunione di usufrutto (o  cousufrutto) e così  via, mentre la  corrispondente situazione di fatto  sulla cosa  è  il compossesso.  Ev  una situazione diversa  da  quella  alla  quale  danno  luogo  i diritti reali (v.) su cosa altrui:  là  una  medesima  cosa  forma  oggetto  di più  diritti  aventi,  ciascuno, un  diverso  contenuto (la  proprietà  di un  soggetto  e, inoltre,  il diritto  di superficie  o di servitù  ecc. di altri  soggetti);  qui  si tratta, invece,  del fenomeno per  cui sulla medesima  cosa  coesistono  diritti  di più  persone, ma aventi  uguale  contenuto (la  proprietà  di più  persone, l’enfiteusi  di più persone ecc.). La  comunione è , dunque, la situazione per  la quale  la proprietà  o altro diritto  reale  spetta  in comune  a più  persone (art.  1100 c.c.).  
 amministratore giudiziario della comunione:  l’art. 1105, comma  4o, c.c., dispone  che, se non  si prendono i provvedimenti necessari  per  l’amministrazione della cosa  comune  o non  si forma  una  maggioranza, o se la deliberazione adottata non  viene  eseguita,  ciascun  partecipante può  ricorrere all’autorità giudiziaria,  che provvede  in camera  di consiglio  e può  anche  nominare un amministratore. La  norma  postula  l’ammissibilità  di altri  provvedimenti, diversi  dalla  nomina  di un  amministratore, che il giudice  può  adottare, su richiesta  di singoli partecipanti: il giudice  può , come  in dottrina si ammette, decidere egli stesso  quegli  atti  di amministrazione della  cosa  comune  che, per inerzia  o per  i contrasti fra loro  insorti,  i partecipanti non  hanno deliberato. Lo  specifico  potere di nominare un  amministratore si rivela,  a  questo  modo,  quale  manifestazione di un  più  ampio  potere che al giudice  è dato  di esercitare sull’amministrazione della  comunione: ampio  al punto  da consentirgli di sostituirsi  ai partecipanti nella  stessa  gestione  della  cosa comune.  Le  possibilità  di intervento del giudice  non  si esauriscono nelle ipotesi  dell’art.  1105, comma  4o, c.c.: il giudice  può , nella  comunione, sindacare il merito  delle  deliberazioni dei partecipanti; può , su impugnazione dei dissenzienti,  annullare ogni  atto  di ordinaria amministrazione che sia gravemente pregiudizievole alla  cosa  comune  (art.  1109 c.c.); può , del pari, annullare le deliberazioni, relative  ad  innovazioni,  che non  appaiono dirette al miglioramento della  cosa  comune  o a renderne più  comodo  o redditizio il godimento o che comportino spese  eccessivamente gravose  (artt.  1108 e 1109 c.c.); può , infine,  annullare lo stesso  regolamento della  comunione ove  esso  non tenda  al miglior  godimento della  cosa  comune  (artt.  1106 e 1107 c.c.). Fra le  disposizioni  ora  menzionate e quella  dell’art.  1105, comma  4o, c.c., esiste un  nesso  evidente:  grave  pregiudizio può , infatti,  derivare alla  cosa  comune  non  soltanto da  deliberazioni che, per  il loro  contenuto, siano  positivamente idonee  a determinarlo; esso  può , altresì,  derivare dalla  mancata  adozione, da  parte  dei partecipanti alla  comunione, di deliberazioni idonee  ad  evitarlo.  A norma dell’art.  1105, comma  4o, c.c., il giudice  può , anzitutto, prendere egli stesso,  in sostituzione dei partecipanti inerti,  i provvedimenti necessari  per l’amministrazione della  cosa  comune:  egli può , cioè , positivamente realizzare,  nell’ipotesi  di inerzia  dei partecipanti, quell’esigenza  di evitare  il grave  pregiudizio della  cosa  comune  che, annullando le deliberazioni pregiudizievoli, realizza  negativamente. Il giudice  può , inoltre,  nominare un  amministratore: ciò  che egli farà , si precisa  in dottrina, nei casi più  gravi, cioè  quando proprio non  se ne  potrebbe fare  a meno;  quando, si può aggiungere,  l’inerzia  o la discordia  dei partecipanti, anziche´  limitarsi  a specifici  atti  di amministrazione (ai  quali  il giudice  possa  provvedere in loro vece),  si sia rivelata  tale  da  impedire loro  il compimento di qualsiasi  atto  di amministrazione. L’amministratore giudiziario  può  essere  un  partecipante o un  estraneo, ed  ha  la stessa  posizione  di quello  nominato dalle  parti.  Il provvedimento del giudice  non  dà  vita  ad  una  forma  di amministrazione della cosa  comune  diversa  da  quella,  prevista  dall’art.  1106, comma  2o, c.c., alla  quale  gli stessi partecipanti potrebbero dare  vita.  Non  si è , dunque, in presenza di una  amministrazione giudiziaria  del genere  di quella  regolata, per  le società  di capitali,  dall’art.  2409 c.c.: l’amministratore nominato dal tribunale è  là  pubblico  ufficiale;  deve  rendere al tribunale, e non  ai soci, il conto  della  sua  gestione;  al tribunale deve  chiedere l’autorizzazione per  il compimento degli  atti  di straordinaria amministrazione (artt.  92  – 94 disp. att., richiamati  dall’art.  103 disp. att.).  Qui,  invece,  l’intervento del giudice  si esaurisce  nell’atto  di nomina:  l’amministratore nominato dal giudice  è , non diversamente da  quello  nominato dalle  parti,  mandatario (v. mandato)  dei partecipanti; a costoro  dovrà  rendere conto  della  sua  amministrazione; costoro potranno, una  volta  superata l’inerzia  o ritrovato l’accordo, impartirgli direttive  o sostituirsi  a lui nel deliberare atti  di amministrazione o,  infine,  revocarlo. Il provvedimento giudiziario  di nomina  di un amministratore si rivela,  in tal  modo,  come  qualitativamente non  diverso  da quegli  altri  provvedimenti necessari  per  l’amministrazione della  cosa  comune  che, nell’inerzia  dei partecipanti, il tribunale può  adottare. La nomina  di un  amministratore da  parte  del giudice  è  provvedimento sostitutivo  di una  corrispondente deliberazione, di ordinaria amministrazione, dei partecipanti: come  il giudice  può , sostituendosi alle parti  inerti  o discordi,  prendere ogni  provvedimento necessario  per  l’amministrazione della  cosa  comune,  così  egli può  prendere quello  fra i  prov  vedimenti necessari  per  l’amministrazione della  cosa  comune,  il quale consista  nella  nomina  di un  amministratore. Il giudice  si limiterà  a designare  la persona dell’amministratore quando le parti,  concordi  sulla necessità  di un  comunione comunione, siano  discordi  sulla designazione della  persona (o quando, come  nel caso  del condominio di edifici  con  più  di quattro condomini, la presenza di un  amministratore è  obbligatoria: art.  1129 c.c.); egli valuterà , invece,  la stessa  opportunità  della  nomina  di un amministratore quando le parti,  per  la loro  inerzia  o per  i contrasti fra essi insorti,  si siano  rivelate  incapaci  di provvedere direttamente all’amministrazione. In  ciò  risiede,  in ultima  analisi,  il valore  della precisazione finale  dell’art.  1105, comma  4o, c.c.: dettando che l’autorità giudiziaria  può  anche  nominare un  amministratore, la norma  chiarisce  che tra  i provvedimenti necessari  per  l’amministrazione della  cosa  comune,  che il giudice  può  adottare in sostituzione dei partecipanti inerti  o discordi,  è compreso anche  il provvedimento, ai partecipanti consentito dal secondo comma  dell’art.  1106 c.c., della  delega  dell’amministrazione ad  uno  di essi o ad  un  estraneo.  
 amministrazione della comunione:  le facoltà  di godimento e di disposizione  della  cosa  spettano ai partecipanti alla  comunione in modo,  per  certi  aspetti,  individuale e, per altri  aspetti,  collettivo.  Vanno  tenute distinte  cinque  situazioni,  relative  le prime  due  alla  facoltà  di godimento, le successive  due  alla  facoltà  di disposizione, l’ultima  alla  difesa  del diritto:  a) l’uso della  cosa  comune.  In linea  di principio  spetta,  separatamente, a ciascun  partecipante, il quale  non deve  però  alterarne la destinazione economica e deve  comportarsi in modo da  non  impedire l’uso da  parte  di ciascun  altro  partecipante (art.  1102 c.c.). Così  ciascuno  dei comproprietari di un  cortile  o di una  strada  privata  può transitarvi e parcheggiare, ma in modo  da  non  impedire il transito  e il parcheggio degli  altri.  Non  sempre,  tuttavia, la natura del bene  comune  è tale  da  consentire l’uso individuale di ciascun  partecipante: se si tratta di un appartamento, e i comproprietari non  intendono coabitarlo, il godimento della  cosa  comune  consisterà  nel darlo  in locazione  e nel ripartirsi il canone secondo  le rispettive  quote  (o  nell’accordarsi perche´  uno  lo abiti  e corrisponda agli altri  le quote  loro  spettanti del canone  di locazione). Le modalità  di uso della  cosa  comune  possono  anche  formare materia  di apposito regolamento, a norma  dell’art.  1106, comma  1o, c.c.; b) l’amministrazione della  cosa  comune.  Spetta  collettivamente ai partecipanti, che deliberano a maggioranza, ma a maggioranza di quote  (art.  1105 c.c.), non  di numero:  perciò  il singolo  partecipante, che detenga una  quota superiore al cinquanta per  cento,  può  imporre la propria volontà  degli  altri, anche  se costoro  sono  numericamente in maggioranza. Tuttavia, per  le innovazioni  (come  il mutamento della  destinazione economica della  cosa comune,  che da  cortile,  ad  esempio,  si vuole  trasformare in suolo  edificatorio) e per  gli atti  di straordinaria amministrazione (ad  esempio, pavimentare il cortile  o la strada  in terra  battuta, dotare di nuovi  servizi l’appartamento) occorre  una  doppia  maggioranza: è  necessaria  la maggioranza di numero dei partecipanti, che rappresentino almeno  i due terzi  del valore  della  cosa  (art.  1108, commi  1o  e 2o, c.c.). Il principio  di maggioranza ha  però  un  correttivo, nella  comunione, che è  affatto  privo  di riscontro nelle  deliberazioni delle  associazioni  (v.) e delle  società  (v.): le dichiarazioni sia di ordinaria sia di straordinaria amministrazione possono  essere impugnate dai partecipanti dissenzienti  davanti  all’autorità  giudiziaria,  che può  annullare le prime  se sono  gravemente pregiudizievoli per  la cosa comune  e le seconde  se lo sono  per  l’interesse  di singoli partecipanti o se comportino una  spesa  eccessivamente gravosa  o se, comunque, non appaiono dirette a rendere più  comodo  o più  redditizio il godimento (art. 1109 c.c.). Non  si tratta, dunque, solo  della  impugnazione di deliberazioni  illegali, contrarie alla  legge o all’eventuale regolamento, così  come  è  previsto  per  associazioni  e per  società : l’autorità  giudiziaria  è  qui  chiamata ad  esercitare un  vero  e proprio sindacato di merito  delle  decisioni  della maggioranza. Sempre  a maggioranza può  essere  formato un  regolamento per  l’ordinaria  amministrazione e per  il miglior  godimento della  cosa comune  (art.  1106, comma  1o, c.c.); e può  altresì  essere  nominato un amministratore della  cosa  comune,  scelto  fra i partecipanti oppure terzo (art.  1106, comma  2o, c.c.). Ev  opinione comune  che si tratti,  in ogni  caso,  di un  mandatario dei partecipanti (l’art.  1106, comma  2o, c.c., si esprime  in termini  di delega  dell’amministrazione), al quale  i mandanti potranno,  sempre  a maggioranza, impartire istruzioni,  o potranno sostituirsi  nel  compimento di atti  di amministrazione, così  come  può  fare  qualsiasi  mandante nei confronti  del mandatario. La  rappresentanza esterna, sostanziale o processuale, dovrà  essergli  espressamente attribuita, secondo  i principi  generali  in tema  di mandato (art.  1704 c.c.). Egli  rappresenterà  i singoli partecipanti, dei quali  dovrà  spendere il nome,  non  già  la comunione in se´, che  non  è  soggetto  di diritto  da  essi distinto;  ne´  può  qui  parlarsi  di rappresentanza collettiva,  come  è  nel caso  del condominio (v.) degli  edifici, sulla base  della  specifica  norma  dell’art.  1131 c.c.. Per  le obbligazioni contratte per  la cosa  comune  i singoli partecipanti rispondono in solido, come  si argomenta dall’art.  1115 c.c., in conformità  del resto  con  i principi generali  sulle obbligazioni  con  pluralità  di debitori (v. obbligazioni, comunione solidali)  (art.  1294 c.c.); c) gli atti  di disposizione  della  propria quota: ciascun partecipante  può , senza  dover  richiedere il consenso  degli  altri partecipanti, disporne liberamente (art.  1103); d)  gli atti  di disposizione dell’intera  cosa  comune  richiedono, invece,  il consenso  unanime dei partecipanti (art.  1108, comma  3o, c.c.); non  la si può  vendere, o costituire su di essa  diritti  reali  altrui  o garanzie  reali,  se tutti  non  sono  d’accordo;  e) ciascuno  dei partecipanti può  agire  contro  i terzi  per  la tutela  della  cosa comune,  sia con  azioni  petitorie sia con  azioni  possessorie.   
 annullabilità  delle  deliberazioni della comunione:  ciascuno  dei componenti la minoranza dissenziente può  impugnare davanti  all’autorità  giudiziaria  le deliberazioni della  maggioranza: 1) nel caso  previsto  dal secondo  comma dell’art.  1105, se la deliberazione è  gravemente pregiudizievole alla  cosa  comune;  2) se non  è  stata  osservata  la disposizione  del terzo  comma dell’art.  1105 n. 3 c.c.; 3) se la deliberazione relativa  a innovazioni  o ad altri  atti  eccedenti l’ordinaria  amministrazione è  in contrasto con  le norme del primo  e del secondo  comma  dell’art.  1108 c.c.. L’impugnazione deve essere  proposta, sotto  pena  di decadenza (artt.  2964 ss. c.c.) entro  trenta giorni  dalla  deliberazione. Per  gli assenti  il termine decorre  dal giorno  in cui è  stata  loro  comunicata la deliberazione. In  pendenza del giudizio, l’autorità  giudiziaria  può  ordinare la sospensione del provvedimento deliberato. (art.  1109 c.c.). V. anche  assemblea  dei partecipanti  alla comunione.  
 assemblea dei partecipanti alla comunione:  entro  la comunione sono  presenti forme  sia pure embrionali di organizzazione. L’art.  1105, comma  3o, c.c. stabilisce  che per la validità  delle  deliberazioni della  maggioranza si richiede  che tutti  i partecipanti siano  preventivamente informati  dell’oggetto  della deliberazione; e, sebbene la norma  non  parli  che di preventiva informazione, è  opinione comune  che essa  imponga,  come  condizione di validità  della  deliberazione, una  vera  e propria convocazione di assemblea. Lo  rivela  l’ultimo  comma  dell’art.  1109 c.c., con  il prevedere una decorrenza diversa  dal termine per  impugnare a seconda  che si tratti  di partecipanti dissenzienti  o assenti;  ciò  che presuppone che la deliberazione sia stata  adottata a seguito  di una  riunione  collegiale  dei partecipanti (una formale  assemblea  è  poi  prevista  dagli  artt.  1135 ss. c.c. per  il condominio degli  edifici).  Il legislatore  si è  pronunciato, con  la norma  dell’art.  1105, comma  3o, c.c., sulla sorte  delle  deliberazioni prese  dalla  maggioranza  all’insaputa  della  minoranza. Non  ha  preso  in considerazione la diversa ipotesi  nella  quale  i partecipanti, tutti  informati  dell’oggetto  della deliberazione, abbiano espresso  a maggioranza la propria volontà  al di fuori di una  riunione  assembleare: si è  rappresentato solo  il caso,  che l’esperienza aveva  segnalato, di una  maggioranza che, magari  rappresentata da  una  sola persona, deliberi  all’insaputa  della  minoranza. Il metodo  collegiale  è certamente superfluo per  le deliberazioni unanimi:  è  risolutiva  in tal  senso la norma  dettata dall’art.  1109 c.c.; a nessun  altro  questa  attribuisce la facoltà  di impugnare le deliberazioni prese  con  inosservanza del metodo collegiale  se non  alla  minoranza dissenziente. La  norma  si riferisce, testualmente, alle  deliberazioni per  le quali  non  sia stata  osservata  la disposizione  del terzo  comma  dell’art.  1105 (art.  1109 n. 2 c.c.): a quella, cioè , tra  le possibili  violazioni  del metodo  collegiale  la quale  consista  nel fatto  che la maggioranza ha  deliberato all’insaputa  della  minoranza. E,  per testuale applicazione dell’art.  1109, n. 2 c.c., la minoranza potrà  in questa ipotesi  impugnare la deliberazione. La  norma  va per  analogia  applicata anche  all’ipotesi  in cui, pur  essendo  stati  tutti  i partecipanti preventivamente informati  dell’oggetto  della  deliberazione, la maggioranza si sia formata attraverso una  separata e successiva  raccolta  di voti, espressi per  corrispondenza o in altri  simili modi.  Anche  in questa  ipotesi,  pertanto, la minoranza potrà , lamentando di non  essere  stata  in grado  di opporre le proprie ragioni  alla  maggioranza, impugnare la deliberazione (e  sempre  che l’impugnativa  non  si ritenga  ad  essa  preclusa  dal fatto  che essa  ha,  sia pure con  voto  contrario, partecipato alla  deliberazione non  collegiale).  Ma  diversa  è  l’ipotesi  in cui i partecipanti, informati  dell’oggetto  della deliberazione abbiano tutti  fatto  pervenire, al di fuori  di una  riunione collegiale,  un  voto  di medesimo  contenuto: qui  nessuno  potrà  impugnare la deliberazione, nessuno  essendo  dissenziente ed  essendo  il potere di impugnare concesso  solo  alla  minoranza dissenziente. Del  resto,  anche  nel condominio, per  il quale  è  espressamente prevista  una  assemblea  dei partecipanti, una  deliberazione assembleare può  essere  sostituita, anche  se si tratta di materie  attribuite dalla  legge alla  competenza dell’assemblea, da una  convenzione fra i partecipanti, conclusa  al di fuori  dell’assemblea. Si è qui  fatto  riferimento a deliberazioni per  avventura prese  all’unanimità  su oggetto  per  il quale  sarebbe bastata la volontà  della  maggioranza; un’altra norma  rivela  comunione questa  volta  in modo  esplicito  comunione la superfluità  del metodo collegiale  per  le deliberazioni necessariamente unanimi.  A  maggioranza possono  essere  adottate di regola  le deliberazioni attinenti all’ordinaria (art. 1105, comma  2o, c.c.) o alla  straordinaria amministrazione (art.  1108, commi 1o  e 2o, c.c.), oltre  che all’approvazione del regolamento della  comunione (art.  1106 c.c.). Ev , invece,  necessario  il consenso  di tutti  i partecipanti per  gli atti  di alienazione o di costituzione di diritti  reali  sul fondo  comune  (art.  1108, comma  3o, c.c.); norma  che presenta anch’essa  una  eccezione). Orbene, per uno  di tali  atti  di costituzione di diritti  reali  sul fondo  comune,  in particolare, per  la costituzione di servitù , l’art. 1059 c.c. esplicitamente dispone  che la servitù  può  essere  dai condomini  concessa  sul fondo  indiviso unitamente o separatamente: laddove  è  evidente che l’atto  costitutivo  della  servitù , potendo risultare  da  separate manifestazioni di volontà , non  deve essere  collegialmente deliberato.  
 contratto con comunione di scopo:  è  una  categoria  di contratti menzionata negli  artt. 1420, 1446, 1459, 1466 c.c., che rivela  i propri  caratteri nel confronto con l’antitetica  categoria  cosiddetta dei contratti di scambio.  In  questi  le parti perseguono scopi  contrapposti e la prestazione di ciascuna  va direttamente ed  esclusivamente a vantaggio  dell’altra  parte;  nei contratti associativi  o con comunione di scopo  la prestazione di ciascuna  è , invece,  preordinata al conseguimento d’uno  scopo  comune  a tutte  le parti.  Essa  non  dà  ad  alcuna parte  un  vantaggio,  un  godimento, immediato, ma,  attraverso una  successiva utilizzazione, finisce indirettamente con  l’andare  a vantaggio  di tutte  le parti,  anche  della  parte  che presta.  Da  ciò  deriva  che, a differenza di quanto avviene  nei contratti di scambio,  l’interesse  di ciascuna  parte  non  è senz’altro  realizzato dall’esecuzione delle  prestazioni cui sono  obbligate  le altre  parti:  esso  si realizza  solo  attraverso lo svolgimento  di quella  ulteriore attività  cui le prestazioni delle  parti  sono  preordinate. Le  discipline  delle diverse  figure  che si sogliono  comprendere nella  categoria  dei contratti con comunione di scopo,  lungi  dall’essere  riconducibili a principi  comuni,  appaiono sensibilmente diverse  tra  loro:  esse  differiscono  in ragione,  essenzialmente, delle  diverse  modalità  di quella  intermedia utilizzazione delle  prestazioni, successiva  alla  loro  esecuzione da  parte  dei contraenti e antecedente al conseguimento del risultato  da  essi perseguito, nella  quale  si è  individuata una  delle  note  salienti  della  categoria. Risulta  diversa,  in particolare, la condizione giuridica  nella  quale,  nel corso  dell’attività  di esecuzione del  contratto, si trovano i beni  conferiti  dalle  parti  (ed  i loro  successivi incrementi). Questi  possono  dare  luogo  alla  costituzione di un  fondo comune o essere,  invece,  l’oggetto  di attribuzione di una  parte  a favore dell’altro;  ed  il fondo  comune  può , a sua  volta,  sottostare al regime  della mera  comunione (v.) o assumere, invece,  i caratteri di un  patrimonio autonomo, sottratto all’azione  esecutiva  dei creditori personali  delle  parti  e vincolato  al perseguimento dello  scopo  comune.  L’attività  di esecuzione del contratto può , d’altro  canto,  essere  esercitata in comune  dai contraenti o essere,  al contrario, la prerogativa d’uno  solo  di essi; e l’esercizio  in comune  può , a sua  volta,  manifestarsi nei soli rapporti interni  o, oltre  che in questi,  anche  nei rapporti esterni.  Si parla,  nel primo  caso,  di associazioni  meramente interne:  il vincolo  associativo  non  ha  rilevanza  per  i terzi,  i quali  acquistano diritti  ed  assumono obbligazioni  nei confronti  di quella  sola delle  parti  che abbia  con  essi contrattato. Rientrano in questa categoria  l’associazione  professionale (v. associazione,  comunione professionale)  e il raggruppamento temporaneo  di imprese  (v.).  Si parla,  nel secondo  caso,  di associazioni  con  efficacia  esterna:  le parti  si presentano, di fronte  ai terzi, come  un  gruppo  unitario, nel nome  del quale  vengono  posti  in essere  gli atti  inerenti all’attività  di esecuzione del contratto. Le  più  elementari modalità  di utilizzazione delle  prestazioni si riscontrano in una  figura bilaterale, l’associazione  in partecipazione (v. associazione,  comunione in partecipazione) (artt.  2549  – 2553 c.c.), che è  al limite,  e secondo  alcuni supera  il limite,  della  opposta categoria  dei contratti di scambio:  in essa non  c’è , neppure nei rapporti interni,  l’esercizio  di un’attività  in comune  dei  contraenti, essendo  la gestione  dell’impresa  o dell’affare  riservata all’associante;  ne´  c’è  costituzione d’un fondo  comune,  entrando l’apporto dell’associato  nel patrimonio dell’associazione. E  la tradizionale collocazione di questa  figura  tra  i contratti associativi  si giustifica  solo  per  la comunione di aspettative esistente,  in ordine  ai risultati  dell’impresa  o dell’affare,  tra associato  e associante  e per  il carattere strumentale che, rispetto  al conseguimento di tali  risultati,  assume  l’apporto  dell’associato.  Prive  di rilevanza  per  i terzi  e con  fondo  comune  sottoposto al regime  della  mera  comunione sono  anche  alcune  figure  plurilaterali: i consorzi  tra  proprietari di cui agli artt.  918  – 920 c.c.; i consorzi  industriali senza  attività  esterna di cui agli artt. 2602  – 2611 c.c.. Il regime  della  comunione è , quanto ai primi,  esplicitamente richiamato dall’art.  920 c.c.; l’assenza  di un  fondo  dotato del carattere di un patrimonio autonomo è , quanto ai secondi,  desumibile a contrariis dall’art. 2614 c.c., che tale  carattere attribuisce al fondo  comune  dei consorzi  con attività  esterna. Le  modalità  della  intermedia utilizzazione delle  prestazioni raggiungono, invece,  un  maggiore  grado  di complessità  nelle  associazioni  in senso  stretto, nelle  società , siano  esse  di persone o di capitali,  lucrative  o cooperative, nei consorzi  industriali con  attività  esterna. Qui  le prestazioni delle  parti  compongono, anche  se si tratta di associazione non  riconosciuta (art.  37 c.c.) o di società  di persone (artt.  2267, 2268, 2304 c.c.), un  fondo comune  dotato dei caratteri di un  patrimonio autonomo (così,  quanto ai consorzi  industriali con  attività  esterna, l’art. 2614 c.c.). L’attività  di esecuzione del contratto è  dalle  parti  esercitata in comune  sia, mediante una  unitaria organizzazione, nei rapporti interni  sia, attraverso l’unitaria  rappresentanza del gruppo,  nei rapporti esterni  (così,  in virtù  degli  artt.  36, comma  2o, e 38 c.c., anche  nelle  associazioni  non  riconosciute; come,  in virtù  dell’art.  2226 c.c., nelle  società  di persone e, in virtù  degli  artt.  2613 e 2615 c.c., nei consorzi  industriali); e qui,  a differenza di quanto accade  nei rapporti contrattuali in precedenza menzionati, il vincolo  associativo  ha comunque, anche  quando le parti  si propongano, con  delle  interne pattuizioni, di tenerlo occulto  ai terzi,  rilevanza  esterna.  
 comunione dei beni fra coniugi:  v. comunione fra coniugi. 
 comunione di azienda ereditaria:  v. comunione di solo  godimento. 
 comunione di impresa:  v. comunione di solo  godimento;  azienda,  comunione coniugale. 
 comunione di solo  godimento:  della  comunione di diritti  reali  si parla,  nel c.c., come  della  comunione a scopo  di godimento. L’espressione figura  nell’art.  2248 c.c.: dopo  avere definito,  con  l’art. 2247 c.c., il contratto di società , il c.c. precisa, nell’articolo successivo,  che la comunione costituita  (leggi: comunione volontaria) o mantenuta (leggi: comunione incidentale) al solo  scopo  del godimento di una  o più  cose  è regolata dalle  norme  del titolo  VII  del libro  III,  ossia  dalle  disposizioni sulla comunione. La  norma  assolve  la funzione  di delimitare gli ambiti  di applicazione rispettivi  delle  norme  sulla comunione, contenute nel terzo  libro,  e delle norme  sulle società  (v.),  contenute nel quinto  libro  (oltre  che di quelle  sulle associazioni  (v.),  contenute nel primo  libro).  La  contrapposizione è  fra diversi  modi  di utilizzazione delle  cose: nelle  società  i beni  conferiti  dalle parti  vengono  utilizzati  per  l’esercizio  in comune  di una  attività  economica allo  scopo  di dividerne gli utili (e  nelle  associazioni  i contributi dei soci e i beni  acquistati con  questi  sono,  a norma  dell’art.  37 c.c., vincolati  anch’essi  allo  svolgimento  di una  attività , diretta a realizzare i fini ideali  del gruppo). Nella  comunione comunione manca,  invece,  questo  specifico  intento e c’è  il solo  scopo  del godimento di una  o più  cose  (art.  2248 c.c.). La  norma  lascia zone  d’ombra. Si possono  trarre dalla  giurisprudenza alcuni  casi paradigmatici: a) un imprenditore commerciale muore  e i suoi  figli ne  ereditano l’azienda  (v.), ossia  il complesso  dei beni  che l’imprenditore defunto aveva  organizzato per  l’esercizio  della  sua  impresa  (art.  2555 c.c.). Fra  i figli si instaura, per effetto  della  successione  ereditaria, un  rapporto di comunione (incidentale):  essi diventano comproprietari dell’azienda  commerciale ereditata. Se l’azienda venisse  data  in affitto  ad  un  terzo  e gli eredi  si dividessero il corrispettivo dell’affitto,  non  ci sarebbe alcun  dubbio:  gli eredi  si limiterebbero al solo godimento dei beni  comuni,  ed  il loro  interno rapporto resterebbe un semplice  rapporto di comunione, regolato  dal terzo  libro  del c.c.. Ma  si supponga che gli eredi  proseguano, essi stessi, l’esercizio  dell’impresa  paterna: si potrà ancora  parlare di comunione oppure si dovrà  dire  che fra gli eredi  si è  costituita  una società?  b)  Più  persone comperano insieme  una  azienda  commerciale e, quindi,  ne  diventano comproprietari (comunione volontaria); oppure comperano insieme  singoli beni  con  i quali  formano un’azienda comune;  dopo  di che, senza  che fra essi sia intervenuto alcun  esplicito  contratto di società,  i comproprietari intraprendono, con  l’azienda  comune,  l’esercizio dell’impresa:  c’è , fra essi, ancora  comunione oppure c’è  società ? Si può  così ragionare: i coeredi  del primo  caso  o i comproprietari del secondo  caso danno  vita,  nei termini  dell’art.  2247 c.c., all’esercizio  in comune  di un’attività  economica allo  scopo  di dividerne gli utili. Dal  loro  comportamento si desume  una  comune  volontà : essi hanno  deciso  di utilizzare  i beni  comuni  per  l’esercizio  di una  impresa  e li hanno,  per  ciò stesso,  conferiti  in società . Per  concludere un  contratto di società  non occorre alcuna  particolare forma:  il contratto può  anche  essere  tacito,  ossia desumersi dal comportamento delle  parti.  La  conclusione  è , dunque, questa: siamo  in presenza di una  società  di fatto,  ossia  di una  società  tacitamente costituita. Ma  si può  fare,  ed  è  stato  più  volte  fatto,  un  altro  ragionamento; l’art. 2247 c.c. definisce  la società  come  il contratto mediante il quale  due  o più  persone conferiscono beni  o servizi ecc.; e conferire beni  significa, come si desume  dalla  disciplina  dei vari tipi  di società , destinarli  alla  costituzione di un  patrimonio sociale  autonomo. La  natura contrattuale del vincolo sociale implica,  da  questo  diverso  punto  di vista, che anche  il conferimento dei beni  in società  deve  essere  l’effetto  di un  accordo  delle  parti,  ossia  di una loro  dichiarazione di volontà . Non  basta,  per  aversi  società , che più persone utilizzino  i beni  comuni  per  l’esercizio  di una  impresa:  occorre, ulteriormente, che essi abbiano voluto  quel  mutamento che deriva,  nella condizione giuridica  dei beni,  dal conferimento di questi  in società ; occorre, in altre  parole,  che essi abbiano voluto  la loro  trasformazione da  beni  in comunione, quali  erano  in origine,  a patrimonio sociale  autonomo. La  conclusione  alla quale  conduce  questo  diverso  ragionamento è  che non  ogni  impresa collettiva  a  scopo  di  lucro  dà  luogo,  necessariamente,  ad  una  società.  Ricorre  una  comunione di impresa,  secondo  coloro  che seguono  questo  orientamento, quando più  persone utilizzano  i beni,  dei quali  sono  comproprietari, esercitando in comune  un’attività  di impresa  e, tuttavia, fra esse  non  è  intercorso un  contratto, quale  il contratto di società , diretto a modificare la condizione giuridica  dei beni  utilizzati,  i quali  restano, perciò , beni  in comunione. Alla base  di questi  contrastanti orientamenti c’è  un  conflitto  fra contrapposte serie  di interessi.  La  teoria  della  comunione di impresa  muove  da  una esigenza  di difesa  dell’autonomia contrattuale: nessuno,  questo  è  il principio generale che si invoca,  può  subire  modificazioni  nella  propria sfera  giuridica contro  o, comunque, indipendentemente dalla  propria volontà . E  in questo, come  in altri  casi, invocare  l’autonomia contrattuale significa  difendere le ragioni  della  proprietà : il comproprietario resta  tale,  e non  si trasforma in socio  (ciò  che, fra l’altro,  lo espone  al rischio  di essere  escluso  dalla  società a norma  dell’art.  2286 c.c. e con  le conseguenze di cui all’art.  2289 c.c.), fino a quando questa  trasformazione non  risulti  da  lui voluta;  i beni  di cui egli è  comproprietario restano beni  in comproprietà , e non  si trasformano in patrimonio sociale,  fino a quando non  risulti  che in tal  senso  si è manifestata la sua  volontà . Il punto  è , tuttavia, che il sacrificio  del diritto  di proprietà  è  qui  imposto  dall’art.  2248 c.c., il quale  limita  l’applicazione  delle norme  del libro  della  proprietà ; e la limita  all’ipotesi  della  comunione costituita  o mantenuta al solo  scopo  del godimento di una  o più  cose.  Viene,  in tal modo,  sancita  l’inammissibilità  di una  comunione di impresa:  viene  escluso  che più persone possano  considerarsi fra loro  legate,  se utilizzano  i beni  comuni  per l’esercizio  di una  impresa,  da  un  rapporto di semplice  comunione. Quando c’è , fra le parti,  l’intento  di esercitare un’impresa,  allora  le norme  del libro  della proprietà  non  possono  più  applicarsi:  si dovranno applicare, necessariamente, le norme  del quinto  libro  e, in particolare, quelle  sulle  società.  Ne´  vale  obiettare che il contratto di società  non  si forma  se manca l’accordo  delle  parti:  la presenza,  fra le parti,  della  concorde  volontà  di esercitare in comune  una  attività  economica allo  scopo  di dividerne gli utili è  quanto basta  per  avere,  fra esse, un  contratto di società . Il fatto  che l’accordo  delle  parti  non  si sia manifestato anche  in relazione  alla condizione giuridica  dei beni  utilizzati  per  l’esercizio  in comune  dell’impresa (il fatto,  nei casi esaminati,  che le parti  non  ne  avessero  voluto  la trasformazione da  beni  in comunione a patrimonio sociale  autonomo) non  impedisce di parlare di contratto di società : il mutamento della  condizione giuridica dei beni  si realizza  anche  se non  voluto  dalle  parti,  ed  anche  se le parti  lo avessero  espressamente escluso.  Esso  si realizza  qui  come  effetto  legale  del contratto di società , secondo  il principio  generale di cui all’art.  1374 c.c.. La cosiddetta comunione di impresa  è , dunque, società  di fatto.  Sennonche´  l’art. 2251 c.c. rende  la società  di fatto  ammissibile  in linea  di principio;  inammissibile per  l’ipotesi  in cui i soci di fatto  conferiscano beni  immobili  in proprietà  o in godimento ultranovennale. Che  cosa  accade  quando la cosiddetta comunione di impresa  cada  su beni  immobili?  si dovrà  dire  che il contratto di società  è nullo  per  mancanza della  forma  scritta,  con  la conseguenza che il socio potrà , in qualsiasi  momento, far dichiarare dal giudice  la nullità  del contratto e riacquistare la piena  disponibilità  dell’immobile? e con l’ulteriore conseguenza che i suoi  creditori particolari potranno  anch’essi, previa  dichiarazione di nullità  del contratto sociale,  far valere  le proprie ragioni  su quell’immobile? C’è , dunque, un  conflitto  fra gli artt.  2248 e 2251 c.c.; ma c’è  anche  la possibilità  di superare questo  conflitto  con  il ricorso  al  principio  generale dell’art.  1367 c.c., secondo  il quale,  nel dubbio,  il contratto  e le singole  clausole  devono  interpretarsi nel senso  in cui possono avere  qualche  effetto,  anziche´  in quello  secondo  cui non  ne  avrebbero alcuno.  Sulla  base  di questo  criterio  interpretativo si dovrà  dire  che il tacito conferimento in società  dei beni  immobili  non  potrà  essere  inteso  come conferimento in proprietà , giacche´  in tal  caso  il contratto di società  non produrrebbe alcun  effetto;  non  potrà  neppure, per  la medesima  ragione, essere  inteso  come  conferimento in godimento a tempo  indeterminato: si dovrà  concludere di essere  in presenza di un  contratto di società  di durata novennale, essendo  questa,  nel silenzio  delle  parti  riguardo alla  durata della società , la massima  durata compatibile, a norma  dell’art.  1350 n. 9 c.c., con la mancanza della  forma  scritta.  La  giurisprudenza ha  mitigato  il rigore dell’art.  2248 c.c. stabilendo che la comunione incidentale ereditaria di una  azienda commerciale si trasforma in società  irregolare fra i suoi  eredi  solo  quando vi sia la prova  che fra tutti  i partecipanti alla  comunione ereditaria si sia raggiunto un  accordo  stabile  e duraturo per  la continuazione dell’esercizio  aziendale, con  la conseguenza che deve  escludersi  l’esistenza  di una  società  irregolare nell’esercizio  anche  continuato di una  azienda  ereditaria comune  qualora  le parti  si siano  limitate  a continuare collettivamente la gestione  dell’azienda in  attesa  di cederla  o di procedere alla  sua  divisione.  La  gestione  comune dell’azienda  ereditaria è , in questi  casi, attuata a fini di semplice conservazione della  ricchezza,  e non  allo  scopo,  richiesto  dall’art.  2247 c.c. per  l’esistenza  di una  società , di produrre, e dividere  fra le parti,  nuova ricchezza.  Si è  in presenza di uno  scopo  pur  sempre  qualificabile  come  scopo  di solo  godimento ai sensi  dell’art.  2248 c.c., dal momento che, nei casi  menzionati, le parti  intendevano vendere l’azienda  ereditaria, o intendevano procedere alla  sua  divisione,  e la gestivano,  in attesa  di trovare un  compratore o di raggiungere un  accordo  per  la divisione,  solo  al fine di evitare  che, interrompendone la gestione,  se ne  disperdesse l’avviamento e ne  diminuisse  il valore  di scambio  o la capacità  produttiva.  
 divisione nella comunione:  lo stato  di comunione è  guardato con  sfavore  dalla  legge, per  gli ostacoli  che oppone al mutamento di destinazione dei beni  e alla  loro circolazione, con  conseguente pregiudizio (qui  come  nel caso  della costituzione sul bene  di diritti  reali  altrui)  per  la migliore  utilizzazione della ricchezza  e per  lo sviluppo  economico (salvo  però  il favore  con  cui lo guarda  in situazioni  particolari, come  nel caso  della  comunione dei beni  fra coniugi (v.  comunione fra coniugi).  Di  qui  la regola  secondo  la quale  ciascuno  dei partecipanti può , in ogni  momento, domandare al giudice  di pronunciare la divisione  (v.) della  cosa  comune  (art.  1111, comma  1o, c.c.), salvo  che si tratti di cosa  che, se divisa (si pensi  al caso  della  strada  privata  in comunione), cesserebbe di servire  all’uso cui è  destinata (art.  1112 c.c.); mentre il patto fra i partecipanti di restare in comunione non  può  eccedere la durata di dieci anni (art.  1111 c.c.). La  comunione comunione si attua,  se possibile,  in natura (art.  1114 c.c.), ossia trasformando le quote  ideali  dei partecipanti in parti  fisiche della  cosa  (alla quota  di un  terzo,  ad  esempio,  di un  terreno di tre  ettari  corrisponderà  un ettaro di terreno). Se il carattere del bene  non  consente o rende  scomoda la divisione  in natura (come  dividere  tra  più  persone un  unico appartamento?), si procede o alla  sua  assegnazione in proprietà  solitaria  ad  uno  dei partecipanti, che verserà  agli altri  il valore  in danaro della  loro quota,  oppure alla  sua  vendita  con  conseguente ripartizione del ricavato  fra i  partecipanti. Alla  comunione comunione si applicano,  in quanto compatibili,  le norme  sulla divisione  ereditaria (art.  1116 c.c.).  
 comunione ereditaria:  v. coeredità . 
 comunione forzosa:  è  una  forma  di comunione alla  quale  non  ci si può  sottrarre: così è  nel  condominio (v.) degli  edifici; così  nel caso  della  comunione del muro  che il  proprietario confinante può  imporre all’altro  proprietario che non  abbia rispettato le distanze  legali. Tra  comunione incidentale e comunione comunione c’è  questa  differenza:  la prima  sorge  senza  che i partecipanti l’abbiano  voluta,  ma può  essere  sciolta per  volontà  dei partecipanti; la seconda  è , invece,  sottratta alla  volontà  di costoro. 
 comunione incidentale:  è  la comunione non  dipendente dalla  volontà  dei partecipanti: più persone, ad  esempio,  ricevono  il medesimo  bene  in eredità  e si trovano, indipendentemente dalla  loro  volontà , ad  esserne  comproprietarie. 
 natura giuridica della comunione:  la comunione è  mera  pluralità  di soggetti  in contitolarità  di diritti;  essa  non  dà  vita  ad  un  soggetto  di diritto  ulteriore rispetto  ai singoli partecipanti; si può  dire,  anzi, che il concetto di comunione esprime  l’antitesi  al concetto di persona giuridica.  I tentativi  di dimostrare una  autonoma soggettività  giuridica  della  comunione appaiono inequivocabilmente contraddetti dal dettato legislativo:  non  c’è  distinzione fra creditori comuni  e creditori dei singoli partecipanti; vale  la regola  secondo  la quale  possono  essere  pignorati i  beni  indivisi (ossia  in comproprietà ) anche  quando non  tutti  i comproprietari sono  obbligati  verso  il creditore (art.  599 c.p.c.): anche  quando, in altre  parole,  non  si tratta di una  obbligazione assunta  per esigenze  di amministrazione della  cosa  comune  (e,  quindi,  riferibile  a tutti  i comproprietari), ma si tratta di una  obbligazione che si ricollega  ad  affari personali  di singoli comproprietari. Il creditore del singolo  comproprietario può , in tal  modo,  pignorare l’intera  cosa  comune  e può , per  soddisfare  le proprie ragioni,  provocarne la vendita  forzata  (art.  600, comma  2o, c.p.c.), con  il risultato  di dissolvere  lo stato  di comunione. Agli  altri  comproprietari non spetterà  che una  somma  di danaro, corrispondente al valore  delle  loro quote. I diritti  che l’art. 1113 c.c. riconosce,  in caso  di divisione  dei beni comuni,  ai creditori dei singoli partecipanti sono  coerenti con  questa condizione giuridica  della  comunione. Ben  diversa  è  la condizione giuridica  delle associazioni  (v.),  anche  non  riconosciute, e delle  società  (v.),  anche  di persone. I creditori particolari degli  associati  o dei soci non  possono  agire sui beni  che formano il patrimonio dell’associazione o della  società.  Su questo  patrimonio è  impresso  un  vincolo  di destinazione, ed  un  vincolo  di destinazione efficace  anche  nei confronti  dei terzi,  che manca  all’opposto sui beni  in comunione. La  presenza di una  sia pure  embrionale organizzazione collettiva,  quale  si manifesta con  l’assemblea  dei partecipanti deliberante a maggioranza, ha  per  altri  aspetti  indotto ad  un  accostamento della  comunione alle associazioni  e alle  società . Per  ricomprenderle tutte  entro  un  medesimo genere  si è  talora  fatto  capo  alla  nozione  di comunione di interessi,  formulata come riassuntiva di tutte  le situazioni  giuridiche  nelle  quali  viene  in considerazione un  interesse comune  a più  soggetti;  ed  è , da  questo  punto  di vista, solo  una  classificazione  interna alle  comunioni  di interessi,  inidonea a  modificare l’essenza  del fenomeno, la distinzione tra  comunioni  contrattuali di interessi  e comunioni  non  contrattuali.  
 quota della comunione:  la coesistenza,  sulla medesima  cosa,  dell’uguale  diritto  di più persone si realizza  mediante la ideale  scomposizione della  cosa  in una pluralità  di quote.  Considerata nella  sua  materialità , la cosa  comune appartiene per  intero  a tutti  i partecipanti: tutti  ne  sono  comproprietari, o  ne  sono  cousufruttuari e così  via, senza  possibilità  di separare fisicamente  parti  della  cosa  spettanti all’uno  o all’altro.  Idealmente, invece,  la cosa comune  si scompone in tante  quote  quanti  sono  i partecipanti: la quota  è una  sua  frazione  ideale,  determinata aritmeticamente: si può  essere comproprietari o cousufruttuari di una  cosa  per  un  mezzo,  per  un  terzo  e così via. Essa  segna  la misura  della  partecipazione di ciascuno  alla  comunione: la proporzione secondo  la quale  ciascun  partecipante concorre nei vantaggi  e nei pesi inerenti alla  cosa  comune  (art.  1101, comma  2o, c.c.). In  linea  di principio,  le quote  di partecipazione si presumono uguali  (art.  1101, comma 1o, c.c.): perciò , se tre  sono  i comproprietari, ciascuno  ha  una  quota  pari  ad un  terzo;  se sono  due,  la quota  di ciascuno  è  di un  mezzo.  Ma  le quote possono,  per  legge o per  volontà  delle  parti,  essere  disuguali  fra loro:  così, se  più  persone sono  state  istituite  eredi  per  quote  disuguali,  esse diventeranno comproprietarie del patrimonio ereditato secondo  le medesime disuguali  quote.  La  presunzione di uguaglianza  delle  quote  opererà , invece, se più  persone comperano assieme  un  bene  sborsando ciascuna  una  somma diversa:  qui,  se le parti  non  stabiliscono  diversamente, ciascuna  avrà  sul bene  comune  una  uguale  quota.    
 comunione tacita familiare:  la comunione comunione consiste  in un  gruppo  familiare  convivente che lavora  e guadagna nell’interesse comune.  Allo  scioglimento della  comunione comunione a tutti i  familiari  spettano gli incrementi in proporzione (soprattutto) del lavoro prestato. La  comunione comunione è  una  struttura gerarchica  che attribuisce, a differenza dell’impresa  familiare,  tutti  i poteri  decisionali  al capofamiglia.  Oggi, alla luce  dell’ultimo  comma  dell’art.  230 bis c.c., sono  ancora  disciplinate dagli usi solo  le comunioni  tacite  nell’esercizio  della  agricoltura, purche´ compatibili con  la disciplina  dell’impresa  familiare  (v.).  Di  conseguenza, solo una  minima  parte  della  disciplina  della  comunione comunione continua ad  essere  regolata dagli usi, essendo  stato  gran  parte  dell’istituto in questione legalmente convertito in impresa  familiare.  Pertanto, sempre  che sia rispettato il fondamentale principio  della  tutela  paritaria del lavoro  familiare,  possono  ancora  trovare applicazione gli usi per  gli aspetti  non  espressamente regolati  dalla disciplina  legislativa.  Il rinvio  alla  disciplina  dell’impresa  familiare  contenuto nell’ultimo  comma  della  norma  in questione svolge  la funzione  di fornire  al familiare  che fa parte  della  comunione comunione una  tutela  normativa minima  inderogabile.  
 comunione volontaria:  è  una  forma  di comunione dipendente dalla  volontà  dei partecipanti alla comunione: più  persone, ad  esempio,  comperano insieme  un  medesimo  bene  e ne diventano, per  ciò  stesso,  comproprietarie. 		
			
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