Enciclopedia giuridica

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Interpretazione del contratto

Il contratto, quando non è un contratto tacito, è fatto di parole, scritte in un documento (contratto scritto) o dette a voce (contratto verbale); ed il senso delle parole, di singole parole o dell’insieme del discorso, può dare luogo a controversie. Di qui l’opportunità di criteri di legge per l’interpretazione del contratto: sono criteri che vincolano le parti, allorche´ dal testo contrattuale desumono i diritti loro spettanti o le obbligazioni loro derivanti; e sono, soprattutto, criteri dei quali si avvale il giudice, allorche´ è controversa fra le parti l’interpretazione del contratto dedotto in un giudizio. I criteri di interpretazione enunciati dalla legge sono di duplice ordine: alcuni, detti criteri di interpretazione del contratto soggettiva, si basano sulla ricerca della comune intenzione delle parti (artt. 1362 – 65 c.c.); altri, detti di interpretazione del contratto oggettiva, si rifanno al concetto di buona fede contrattuale (v. buona fede, interpretazione del contratto contrattuale) o ad altri oggettivi elementi non riconducibili all’intenzione delle parti (artt. 1366 – 70 c.c.). V. anche qualificazione, interpretazione del contratto del contratto.

interpretazione del contratto oggettiva: è l’interpretazione del contratto secondo criteri detti di interpretazione del contratto interpretazione del contratto, che si rifanno al concetto di buona fede contrattuale (v. buona fede, interpretazione del contratto contrattuale) o ad altri oggettivi elementi non riconducibili all’intenzione delle parti (artt. 1366 – 70 c.c.). Un generale criterio di interpretazione del contratto è quello secondo il quale il contratto deve essere interpretato secondo buona fede (v.) (art. 1366 c.c.): esso impone di dare al contratto il significato che gli attribuirebbero contraenti corretti e leali, anche se in concreto entrambe o una delle parti del contratto da interpretare non lo sono affatto. Ev un criterio che può condurre a dare al contratto un significato diverso dal significato testuale delle espressioni che in esso figurano, se questo diverso significato è quello che al contratto darebbero contraenti corretti e leali. Il più delle volte l’interpretazione del contratto secondo buona fede serve proprio per vincere l’atteggiamento cavilloso della parte che invoca, a proprio vantaggio, ciò che il contratto testualmente dice o testualmente non dice (il contratto non lo vieta: dunque, posso farlo; il contratto non lo consente: dunque, non puoi farlo). Altri criteri oggettivi, che prescindono dall’intenzione delle parti, valgono per le clausole ambigue, ossia per le clausole contrattuali alle quali si possono attribuire più sensi. Significativa è la norma dell’art. 1369 c.c.: le espressioni che possono avere più sensi debbono, nel dubbio, essere intese nel senso più conveniente alla natura e all’oggetto del contratto, ossia dando rilievo alla oggettiva funzione economicointerpretazione del contrattosociale di quel dato tipo contrattuale e alla oggettiva destinazione economica del bene dedotto in contratto. Ecco un esempio: un imprenditore riceve un mutuo a tasso agevolato con l’impegno di utilizzare il finanziamento ottenuto per realizzare uno stabilimento industriale con almeno 100 unità lavorative. Problema: il contratto lo obbliga ad assumere almeno 100 dipendenti (onde è inadempiente se ne assume in numero inferiore) o non, piuttosto, a realizzare uno stabilimento industriale capace di assorbire un tale numero di dipendenti? L’art. 1369 c.c. induce a considerare come conveniente alla natura e all’oggetto del contratto la seconda interpretazione: il numero dei dipendenti di un’impresa dipende dalle condizioni di mercato (del mercato dei prodotti di quella data impresa e delle materie prime, del mercato del lavoro ecc.) e non è conveniente alla natura del contratto e del suo oggetto il ritenere che la parte si fosse obbligata a tenere un comportamento suscettibile di rivelarsi antieconomico, come l’assumere dipendenti destinati a restare inattivi. Vale, ancora, il principio di conservazione del contratto: la clausola si interpreta nel senso in cui è valida o è efficace, anziche´ in quello per il quale sarebbe invalida o inefficace (art. 1367 c.c.). Valgono, inoltre, i cosiddetti usi interpretativi, che non sono usi (v.) in senso tecnico (art. 8 prel.), ma pratiche contrattuali: la clausola ambigua si interpreta secondo ciò che generalmente si pratica nel luogo in cui il contratto è stato concluso (art. 1368 c.c.). Una regola diversa vale per l’ipotesi in cui una delle parti sia un imprenditore: il secondo comma dell’art. 1368 c.c. dispone, in deroga al primo, che nei contratti in cui una delle parti è un imprenditore, le clausole ambigue si interpretano secondo ciò che si pratica generalmente nel luogo in cui è la sede dell’impresa; luogo che può essere diverso, e normalmente è diverso per le imprese che agiscono su un vasto mercato, da quello in cui il contratto è stato concluso. La norma assolve, in sede di interpretazione del contratto, una funzione corrispondente a quella assolta, in sede di determinazione del regolamento contrattuale, dall’art. 1341 c.c. (v. condizioni generali di contratto): essa assicura all’imprenditore una uniformità di interpretazione dei contratti da lui stipulati in luoghi diversi e soddisfa l’esigenza propria di un sistema di produzione o di distribuzione di massa, di una attività contrattuale condotta secondo schemi uniformi. Si intende poi che, se entrambe le parti del contratto siano imprenditori (ad esempio, il contratto intercorre tra il fornitore delle materie prime e il produttore del prodotto finito), si applicherà il primo comma: ciò che rende evidente come la norma del secondo comma sia destinata a regolare i rapporti fra imprenditori e consumatori o utenti. Ancora: le clausole che pongono condizioni generali di contratto si interpretano, nel dubbio, contro l’autore della clausola, ossia nel senso più favorevole all’altro contraente (art. 1370 c.c.), che è il contraente più debole. Infine, se il contratto rimane ancora oscuro, si applicano questi estremi criteri: il contratto a titolo oneroso (v. contratto, interpretazione del contratto a titolo oneroso) si interpreta nel senso che realizzi l’equo contemperamento degli interessi delle parti, ossia il migliore equilibrio possibile tra prestazione e controprestazione: il contratto a titolo gratuito (v. contratto, interpretazione del contratto a titolo gratuito) si interpreta nel senso meno gravoso per il contraente obbligato (art. 1371 c.c.). Qui il favore per il debitore prende il posto, trattandosi di atti gratuiti, del più generale favore per il creditore. In quale rapporto i criteri di interpretazione del contratto oggettiva si pongono rispetto ai criteri di interpretazione del contratto soggettiva? Nel rispondere a questo interrogativo la Cassazione si mostra sensibile ad una esigenza di massimo rispetto della volontà delle parti; timorosa che il giudice di merito venga a sovrapporre la propria soggettiva opinione all’effettiva volontà dei contraenti: essa attribuisce a tutti i criteri interpretativi di cui agli artt. 1366 – 70 c.c. carattere sussidiario rispetto ai criteri basati sulla ricerca della comune intenzione delle parti. Il che non sembra controvertibile per i canoni interpretativi di cui agli artt. 1367 – 70 c.c., ciascuno dei quali è legislativamente formulato per l’ipotesi di dubbio o di ambiguità o di oscurità del contenuto contrattuale; mentre è discutibile per il canone dell’interpretazione del contratto secondo buona fede (v.), e non solo perche´ all’art. 1366 c.c. non subordina affatto l’applicazione di questo criterio alla sussistenza di dubbi o ambiguità o oscurità . Vale, soprattutto, la considerazione che il dovere di buona fede, come vincola le parti nella formazione (art. 1337 c.c.) e nell’esecuzione del contratto (art. 1375 c.c.), oltre che in pendenza della condizione (art. 1358 c.c.) e nella proposizione dell’eccezione di inadempimento (v. eccezione, interpretazione del contratto di inadempimento) (art. 1460, comma 2o, c.c.), così non può non vincolarle in sede di interpretazione del contratto. Anche nella relazione al re è detto che non si è inteso far riferimento ad uno stato psicologico subiettivo dell’agente, ma alla buona fede obiettiva; in altre parole, la dichiarazione di volontà contrattuale deve essere intesa secondo un criterio obiettivo, che ha per fondamento un canone di reciproca lealtà di condotta fra le parti.

interpretazione del contratto secondo buona fede: v. interpretazione del contratto oggettiva.

interpretazione del contratto soggettiva: è l’interpretazione del contratto effettuata tramite dei criteri che si basano sulla ricerca della comune intenzione delle parti (artt. 1366 – 70 c.c.). Tale interpretazione muove dal principio fissato dall’art. 1362, comma 1o, c.c.: nell’interpretare il contratto, si deve indagare quale sia stata la comune intenzione delle parti, e non limitarsi al senso letterale delle parole. La norma enuncia due concetti: il senso letterale delle parole, al quale non ci si deve limitare; la comune intenzione delle parti, che si deve ricercare al di là del senso letterale delle parole. Ma anche le norme sull’interpretazione del contratto sono, a loro volta, oggetto di interpretazione; e l’interpretazione che la Cassazione dà dell’art. 1362, comma 1o, c.c., è tutt’altro che univoca. Coesistono anzitutto due orientamenti generali: a) l’orientamento secondo il quale il senso letterale delle parole è criterio fondamentale e prioritario, con la conseguenza che, ove le espressioni usate nel contratto siano di chiara e inequivoca significazione, la ricerca della comune volontà è esclusa; b) l’orientamento secondo il quale il giudice non può mai prescindere dalla ricerca della comune intenzione delle parti, rispetto alla quale il senso letterale delle parole adoperate dai contraenti si pone come il primo degli strumenti di interpretazione. Secondo questo orientamento, la ricerca della comune intenzione delle parti può dirsi conclusa, ma non esclusa, quando le espressioni usate siano di chiara e univoca significazione. L’orientamento sub a si rifà all’antico broccardo in claris non fit interpretatio; ma è tutt’altro che coerente con l’art. 1362, comma 1o, c.c., che esorta a non limitarsi al senso letterale delle parole. Ne´ può sfuggire che il criterio ermeneutico codificato per i contratti è molto più svalutativo del senso letterale delle parole del criterio fissato dall’art. 12, comma 1o, prel. per l’interpretazione della legge (v.), cui non si può attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore (che appare così collocata in secondo piano). Le parole, prese a se´ , possono tradire l’intenzione dei contraenti: questi, ad esempio, hanno scritto di volere l’uno dare in locazione (v.) e l’altro ricevere in locazione la cosa che il primo consegna al secondo, ma nel contratto non c’è menzione del canone di locazione. Se ci si potesse limitare al senso letterale delle parole (qui della parole locazione), si dovrebbe senz’altro concludere di essere di fronte ad un contratto nullo per mancanza dell’oggetto (qui il canone di locazione). Ma bisogna ricavare, al di là delle parole, l’intenzione delle parti: può allora risultare che queste volevano effettivamente l’una concedere e l’altra conseguire il godimento gratuito del bene, e si deve concludere che esse intendevano stipulare un contratto di comodato (v.), anche se l’hanno impropriamente definito come locazione (o, talvolta succede, come locazione gratuita). Ancora: le parti qualificano il contratto come preliminare (v.) di vendita, ma poi vi scrivono che, con esso, l’una vende e l’altra compera: è davvero un contratto preliminare, che ancora non trasferisce la proprietà , o non è piuttosto un contratto definitivo, impropriamente qualificato come preliminare, che ha già trasferito la proprietà ? L’importanza del quesito appare di tutta evidenza se si considera la diversa attribuzione del rischio, nell’uno o nell’altro caso, per il perimento della cosa (v. perimento, rischio del interpretazione del contratto della cosa). I casi ora prospettati sollevano problemi di qualificazione giuridica del contratto; e di fronte a questi problemi la Cassazione tende a svalutare il senso letterale delle parole ed a collocarsi costantemente nella posizione di cui sub b, statuendo che la denominazione che le parti danno ad un istituto contrattuale intanto assume rilevanza nel procedimento di ermeneutica del negozio giuridico in quanto essa corrisponda al contenuto giuridico delle pattuizioni che le parti intendono esprimere, mentre, nel caso in cui sussista divergenza tra il significato della dizione usata ed il contenuto della pattuizione, la qualificazione di quest’ultima va desunta dalla natura della materia dedotta nell’atto contrattuale. Altro caso ancora: Tizio dichiara di vendere a Caio l’immobile appartenente alla società Zeta, dopo aver premesso che le quote di questa società gli appartengono e che l’immobile è l’unico cespite della società . Dovrà il giudice, stando alla lettera del contratto, ritenere che oggetto della vendita è l’immobile altrui o potrà ammettere Caio a provare che comune intenzione delle parti era di trasferire le quote della società Zeta? Anche qui l’importanza del quesito è evidente: nella seconda ipotesi, se Tizio è inadempiente, Caio potrà ottenere una sentenza che gli trasferisce la proprietà delle quote; nella prima ipotesi varranno le norme sulla vendita di cosa altrui inadempiuta, e Caio non avrà mai l’immobile. Come scoprire, al di là delle parole, la reale intenzione delle parti? La legge fornisce alcuni criteri: un primo criterio, di carattere storico, è quello secondo il quale occorre valutare il comportamento complessivo delle parti, anche posteriore alla conclusione del contratto (art. 1362, comma 2o, c.c.). In virtù del criterio storico può venire in considerazione, quale comportamento anteriore, la corrispondenza intercorsa fra le parti durante le trattative o, se si tratta di interpretare un contratto definitivo, si possono trarre lumi dal contratto preliminare (v.), quantunque il primo resti l’unica fonte di diritti ed obbligazioni fra le parti. Quale comportamento posteriore può assumere rilievo il comportamento delle parti in sede di esecuzione del contratto: se esse hanno costantemente attribuito, in sede di esecuzione, un dato significato al contratto, non potrà una parte successivamente insorgere pretendendo che le parole del contratto vadano diversamente interpretate. Ma a questo riguardo si delinea un ulteriore contrasto negli orientamenti della Cassazione: c) solidale con l’orientamento sub a è l’indirizzo per cui la valutazione del comportamento delle parti, posteriore alla conclusione del contratto, è un criterio soggettiva hanno carattere logico. Per l’art. 1363 c.c. (v. anche planimetrie) occorre interpretare le singole clausole le une per mezzo delle altre, attribuendo a ciascuna il significato che risulta dal complesso dell’atto: a questo modo l’intenzione delle parti viene ricostruita considerando il contratto nel suo insieme, e il significato letterale di una clausola può apparire contrario all’intenzione delle parti se la clausola viene intesa alla Nella dottrina non recente si sono elaborate al proposito due teorie: una prima autonomistica, per cui la nozione assunta dalla norma tributaria avrebbe comunque una propria peculiarità , dovendo adeguarsi alla sostanza economica dell’affare indipendentemente dalla forma giuridica richiamata; una seconda antiautonomistica che, al contrario della precedente, sostiene l’esigenza di accogliere la medesima nozione del settore giuridico di


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