Enciclopedia giuridica

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Divorzio

Ev una causa di scioglimento del matrimonio (v.). Lo scioglimento è una vicenda del rapporto matrimoniale, e produce effetti solo dal momento in cui si verifica la causa che lo determina (nel caso di divorzio, dalla data d’annotazione nei registri dello stato civile della sentenza che ha pronunciato il divorzio). Il divorzio differisce in ciò dalla dichiarazione di nullità del matrimonio (v. matrimonio, nullità del divorzio), che è invece una vicenda dell’atto ed elimina fin dall’origine, fra i coniugi, salvi gli effetti del matrimonio putativo (v. matrimonio, divorzio putativo) e salvi gli effetti relativi allo stato dei figli, ogni effetto giuridico del matrimonio. Il divorzio, introdotto in Italia solo con la l. n. 898 del 1970, modificata dalla l. n. 74 del 1987, può essere domandato da uno dei coniugi quando: a) sia stata pronunciata, con sentenza passata in giudicato, la separazione giudiziale fra i coniugi o sia stata omologata la separazione consensuale, e siano trascorsi tre anni di ininterrotta separazione personale dalla comparizione dei coniugi davanti al presidente del tribunale; b) ci sia stata condanna dell’altro coniuge, anche per fatti commessi precedentemente al matrimonio, all’ergastolo o alla reclusione superiore a quindici anni o a qualsiasi pena detentiva per incesto (art. 564 c.p.), per violenza carnale o altri reati contro la libertà sessuale (artt. 519, 521, 523, 524 c.p.), per induzione, costrizione, sfruttamento o agevolamento della prostituzione; a qualsiasi pena per omicidio volontario di un figlio o per tentato omicidio a danno del coniuge o di un figlio; a qualsiasi pena detentiva, con due o più condanne, per lesioni personali gravissime (artt. 582, 583, comma 2o, c.p.) o per violazione degli obblighi di assistenza familiare (art. 570 c.p.) o per maltrattamenti (art. 572 c.p.) o per circonvenzione (art. 643 c.p.) in danno del coniuge o di un figlio; salvo, in tutti questi casi, che il coniuge non sia stato condannato per concorso nel reato e salvo che la convivenza coniugale non sia ripresa; c) l’altro coniuge sia stato assolto per vizio totale di mente dai reati di incesto, violenza carnale o altri reati contro la libertà sessuale, omicidio volontario di un figlio o tentato omicidio o danno del coniuge o di un figlio; d) non ci sia stata consumazione del matrimonio (nel qual caso, se si tratta di matrimonio religioso trascritto, a poco giova ottenere la dispensa ecclesiastica per matrimonio rato e non consumato, che non può più essere resa esecutiva nello Stato); e) l’altro coniuge straniero abbia ottenuto all’estero l’annullamento o lo scioglimento del matrimonio o abbia contratto all’estero nuovo matrimonio. Può essere sciolto, negli stessi casi, anche il matrimonio cattolico: si parla in tal caso, di cessazione degli effetti civili del matrimonio. Per la Chiesa, che considera il matrimonio indissolubile, il rapporto matrimoniale continua (onde il divorziato non può contrarre nuovo matrimonio cattolico); ma lo Stato che lo considera dissolubile, ammette che gli effetti civili del matrimonio cattolico possano, negli stessi casi e allo stesso modo del matrimonio civile, essere sciolti per divorzio. In ogni caso il giudice deve preliminarmente tentare di riconciliare i coniugi, sentendoli prima separatamente e poi congiuntamente (art. 4, comma 7o c.c.); deve, inoltre, accertare che la comunione spirituale e materiale tra i coniugi non può essere mantenuta o ricostituita (art. 2 citata l. n. 898). In teoria, egli potrebbe respingere la domanda di divorzio anche in presenza dei presupposti sopra indicati (tre anni di separazione personale ecc.); nella prassi, l’accertamento della impossibilità di ricostituire la comunione fra i coniugi diventa la conseguenza automatica dell’infruttuoso tentativo di riconciliazione. Ev ammessa, quando ci sia accordo fra i coniugi circa il divorzio e le condizioni inerenti alla prole ed ai rapporti economici, una procedura più celere: il divorzio è pronunciato in camera di consiglio, sull’istanza congiunta dei coniugi; tuttavia il tribunale, se ritiene che le condizioni concordate riguardo alla prole siano in contrasto con gli interessi dei figli, dà luogo alla procedura ordinaria (art. 4, comma 13o c.c., aggiunto con la riforma del 1987). Sebbene la legge non lo dica, è legittimo ritenere che un giudizio di divorzio, iniziato con rito ordinario, possa su istanza delle parti assumere le forme del rito camerale. Nell’ordinario rito contenzioso la materia del contendere può avere ad oggetto, oltre alla sussistenza della causa di divorzio: a) l’affidamento della prole. Il tribunale, nel pronunciare il divorzio o la cessazione degli effetti civili del matrimonio cattolico, stabilisce a quale dei coniugi debba essere affidata la prole, basandosi sul solo criterio dell’interesse morale e materiale dei figli, e in quale misura l’altro coniuge debba provvedere al loro mantenimento (art. 6, commi 2o e 3o, c.c.). A questo proposito può provvedere anche d’ufficio. Le disposizioni dettate al riguardo possono essere successivamente modificate per sopraggiunti motivi (art. 9 l. citata n. 898). La casa familiare può , con estensione al divorzio della norma di cui all’art. 155 c.c., essere assegnata al coniuge affidatario della prole, anche se il diritto reale o personale di godimento sull’immobile spetta all’altro; l’assegnazione, se trascritta, è opponibile al terzo acquirente. Nell’adottare i provvedimenti relativi ai figli ed al loro mantenimento il tribunale non è vincolato dalle decisioni e dagli apprezzamenti già effettuati in sede di separazione. b) l’assegno (v. assegno, divorzio di divorzio). L’inadempimento degli obblighi derivanti dalla sentenza di divorzio dà luogo a problemi in parte risolti dalla riforma del 1987. Può accadere: a) che il coniuge non affidatario della prole si rifiuti di ottemperare alle disposizioni del tribunale. Prima della riforma si riteneva che il coniuge affidatario potesse, soluzione, per la verità , alquanto barbara, fare ricorso alle forme processuali dell’esecuzione per consegna o rilascio di cose mobili o dell’esecuzione in forma specifica degli obblighi di fare. Il testo riformato dell’art. 6, comma 10o, c.c., esclude la competenza del giudice dell’esecuzione, attribuendo l’attuazione dei provvedimenti relativi all’affidamento della prole al giudice di merito, il quale potrà prescegliere le modalità più opportune a seconda delle circostanze, avvalendosi del servizio sociale piuttosto che della forza pubblica, cui farà ricorso solo nei casi estremi; b) che resti inadempiuto l’obbligo di corrispondere l’assegno. Agli ordinari rimedi l’art. 5, commi 3o, 4o, 5o, 6o, c.c., ne aggiunge uno specifico: il coniuge creditore può agire nei confronti del terzo debitore dell’altro coniuge per la corresponsione periodica di somme di danaro (nei confronti, essenzialmente, del suo datore di lavoro), per ottenere somme non superiori alla metà di quelle spettanti all’altro coniuge (e qui si va oltre il limite del quinto di cui all’art. 545 c.p.c.). Ev anche previsto il sequestro (conservativo) dei beni del coniuge debitore o dei suoi crediti verso il terzo, se questi si rifiuta di corrispondere spontaneamente quanto dovuto al coniuge creditore dell’assegno (art. 5, comma 7o, c.c.). Il tribunale, nel pronunciare il divorzio, può imporre al coniuge debitore dell’assegno di prestare idonea garanzia personale o reale (art. 8, comma 1o c.c.); e la sentenza, in ogni caso, costituisce titolo per iscrivere ipoteca giudiziale sui beni del coniuge tenuto alla corresponsione dell’assegno (art. 8, comma 2o c.c.). Una nuova causa di scioglimento del matrimonio o di cessazione degli effetti civili del matrimonio cattolico si è aggiunta con la l. n. 164 del 1982, che ammette la rettificazione dell’attribuzione di sesso. La sentenza di rettificazione non ha effetto retroattivo: essa attribuisce un nuovo sesso per il futuro e lascia sussistere, per il passato, il sesso enunciato nell’atto di nascita. Si tratta, perciò , di una vicenda che investe il rapporto matrimoniale, tale da provocarne lo scioglimento: così l’art. 4 della legge citata, che ricollega l’effetto risolutivo del vincolo matrimoniale alla stessa sentenza di rettificazione, mentre l’art. 3, lett. g, della legge sul divorzio, nel testo modificato dalla l. n. 74 del 1987, include il passaggio in giudicato della sentenza di rettificazione del sesso fra le ipotesi nelle quali può essere domandato il divorzio. Ma la svista è evidente, non essendo concepibile (almeno nel nostro sistema) la protrazione del vincolo matrimoniale fra persone diventate dello stesso sesso. Vale, perciò , l’art. 4 della l. n. 164 del 1982: la stessa sentenza di rettificazione pronuncia lo scioglimento del matrimonio, mentre è facoltà di uno degli ex coniugi di iniziare un giudizio per ottenere provvedimenti relativi alla determinazione dell’assegno o all’affidamento della prole.

divorzio nel matrimonio concordatario: per divorzio s’intende lo scioglimento del matrimonio ad opera del giudice qualora sussistano gli elementi idonei ad indicare la cessazione della comunione materiale e spirituale tra gli stessi. Tale istituto è stato introdotto in Italia con l. 1o dicembre 1970, n. 898, confermata con referendum del 1974. Il giudice, per dichiarare il divorzio, deve accertare l’esistenza di determinate cause contemplate all’art. 3. In base all’art. 2 la disciplina dei casi di scioglimento è applicata anche ai matrimoni celebrati con rito religioso e trascritti nei registri dello stato civile. Tale articolo è stato sottoposto al vaglio della Corte Costituzionale che, con le sentenze n. 169 del 1971 e n. 176 del 1973, ha ritenuto tale normativa non contrastante con l’art. 34, comma 1o (concordato 1929), e con gli artt. 7 e 138 Cost. ne´ con l’art. 34, comma 4o, e gli artt. 7 e 138 Cost.. Infatti lo Stato, anche in costanza del concordato, rimane competente a disciplinare i casi di scioglimento del matrimonio concordatario in quanto, la competenza che riconosce alla Chiesa il concordato, non è esclusiva, ma è limitata ai casi matrimoniali previsti al comma 4o dell’art. 34 (concordato 1929) (v. divorzio). (M.E. Campagnola).


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