Enciclopedia giuridica

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Culto

Per culto si intende il sentimento di amore e venerazione esteriorizzato attraverso forme espressive rituali, personali e collettive, rivolte a persone o cose. Ogni religione ha sue proprie pratiche devozionali e rituali che possono essere definite sinteticamente culti. In quanto fenomeno sociale con finalità religiosa, il culto viene in evidenza per l’ordinamento statale allorche´ si esteriorizza. Poiche´ il culto non è altro che la forma esterna con cui ciascuna religione estrinseca il proprio sentimento di omaggio e rispetto verso un entità trascendente, esso viene preso in considerazione dall’ordinamento giuridico in tutta la sua ampiezza sotto il profilo del riconoscimento della libertà religiosa come facoltà di esercitare il culto in pubblico o in privato (artt. 2, 8, 17 e 19 Cost.). Intendendosi per culto una pratica corretta di devozione verso la divinità , ne consegue che non possono essere qualificati come tali il culto divino reso ad un essere non divino (cultus falsi numinis) o l’idolatria, o la divinazione, o l’osservanza di riti superstiziosi, pratiche queste scarsamente prese in considerazione dalle leggi dello Stato, se non nella prospettiva negativa della fissazione di limiti di rispetto del buon costume e dell’ordine pubblico. In questo scorcio di fine secolo si assiste al proliferare di fenomeni sociali e relative manifestazioni e organizzazioni culturali (Chiesa di Scientology, Hare Krishna, Testimoni di Geova, Bambini di Dio ecc.), che si risolvono in pseudo religioni, sintomo di una diffusa fragilità sociale che si esprime in preoccupanti forme di plagio e condizionamento psicologico. I pericoli conseguenti ad un uso strumentale del culto, in danno di soggetti deboli, hanno indotto il Parlamento europeo a predisporre, con risoluzione del 22 maggio 1984 (Gazz. uff. Com. Eur. 2 luglio 1984, n. C 172), una serie di criteri con i quali individuare la liceità dei nuovi movimenti religiosi.

culto ammesso: la formula culti ammessi, usata nell’art. 1 l. n. 1159 del 24 giugno 1929 ed esplicitata nella Relazione ministeriale del 30 aprile 1929, secondo la quale l’espressione culti ammessi nello Stato, consente, permette, ammette e quindi tutela anche l’esercizio degli altri culti, quando non ne derivi danno ai principi essenziali che reggono la vita dello Stato, riflette la via confessionista percorsa dal legislatore per affrontare i problemi connessi con la garanzia del principio generale della libertà religiosa. Si tratta di un modello con il quale lo Stato si arroga una posizione di dominio eminente sulla massima parte delle questioni di natura ecclesiastica, con la duplice funzione di tutela e di controllo della sfera di potere ed autorità della Chiesa, relegando nel contempo le confessioni di minoranza ad una condizione di soggetti tollerati, e con un ruolo di subordinazione nei confronti della stessa religione cattolica. Così l’espressione culti ammessi, prevede soggetti che godono di una libertà di estrinsecazione del sentire religioso in misura assai ridotta, rispetto alla religione alla quale lo Stato ritiene di dare la sua totale adesione. Il r.d. 28 febbraio 1930, n. 289 (norme per l’attuazione della l. n. 1159 del 1929 sui culti ammessi nello Stato e per il coordinamento di esse con le altre leggi dello Stato), per parte sua fissò dei principi assai restrittivi, potendo l’autorità amministrativa immettersi in una serie di ambiti rilevanti nell’esplicazione della libertà religiosa. Così, circa l’apertura di templi e oratori (art. 1); circa le riunioni pubbliche di fedeli (art. 2) ecc.. La Costituzione all’art. 8 ha tuttavia fortemente innovato introducendo il principio di eguaglianza di tutte le confessioni religiose, senza prescegliere una in confronto alle altre (l’art. 8, comma 3o, Cost. esige però che gli statuti delle confessioni religiose acattoliche siano conformi all’ordinamento italiano), e confermando la validità del principio concordatario, a discapito di quello confessionista, quale sistema che anima i rapporti tra gli ordinamenti sovrani di Stato e Chiesa (art. 7 Cost.). Le intese stipulate dalle confessioni religiose di minoranza con lo Stato, poi seguite con legge, ispirate al medesimo principio della pari dignità di tutte le confessioni religiose, hanno confermato l’inapplicabilità dell’art. 1 l. n. 1159 del 1929. La l. 2 luglio 1984, n. 449, esecutiva dell’intesa con la Tavola Valdese, ponendo una disciplina specifica per tale confessione, ha infatti privato l’espressione culti ammessi, di quel carattere di generalità che la rendeva strumento normativo comune a tutte le confessioni religiose di minoranza. Le successive intese (l. n. 516 del 1988 per le Chiese Avventiste, l. n. 517 del 1988 per le Chiese delle Adi, l. n. 101 del 1989 per la Confessione ebraica), hanno confermato il consolidamento di queste scelte di fondo operate dal legislatore italiano.

edifici di culto: sono i manufatti architettonici (le chiese dei cristiani, le sinagoghe, le moschee), stabilmente destinati ad un fine di culto. L’ordinamento dello Stato attribuisce rilievo al profilo culturale che non a quello dei beni patrimoniali, assicurando la continuità della destinazione dell’edificio di culto al fine proprio (riguardo alle intese stipulate con le confessioni religiose di minoranza v. art. 27 l. n. 516 del 1988, art. 10 l. n. 517 del 1988 e art. 14 e 27 l. n. 101 del 1989). Il Codex Juris Canonici dedica alcuni canoni alla materia culto culto. Il can. 1205 genericamente si riferisce ai luoghi sacri, mentre il can. 1214 identifica come Chiesa, l’edificio sacro destinato al culto divino, dove i fedeli hanno diritto di entrare, per offrire soprattutto pubblicamente il culto divino. Posizione a se´ , per la particolare necessità di culto che vi si esplica, ha il santuario, chiesa o luogo sacro meta di speciale venerazione da parte di quei fedeli che vi fanno pellegrinaggio in gran numero (can. 1230). Il can. 1223 contiene la disciplina sugli oratori. Per ciò che riguarda la disciplina degli culto culto di appartenenza della Santa Sede, l’art. 13, comma 1o, del Trattato del Laterano (l. 27 maggio 1929, n. 810), sancisce la piena proprietà delle basiliche patriarcali in essa menzionate. Per gli edifici di culto della Chiesa cattolica, l’art. 5 Accordo 18 febbraio 1984 offre dei precisi elementi di identificazione; essi sono gli unici destinatari di norme favoritive in tema di requisizioni, occupazioni, espropriazioni per pubblica utilità , demolizioni, nonche´ della disciplina dell’ingresso della forza pubblica per gravi ragioni. L’art. 831, comma 2o, c.c. che pure si riferisce agli edifici di culto cattolico, ne considera la destinazione al pubblico esercizio del culto, da valutare in relazione all’obiettivo stato di fatto in cui versano, senza la necessità di una speciale autorizzazione da parte dell’autorità ecclesiastica. Il vincolo di indisponibilità che per conseguenza sorge in capo a tali edifici, si collega alla specifica funzione di culto cui sono adibiti, e non agli edifici in se´ considerati ne´ alle loro eventuali pertinenze. Come regola generale, le chiese non possono essere sottratte alla loro destinazione al culto, se non siano precedentemente state sconsacrate secondo le disposizioni canoniche. In quanto edifici aperti al culto pubblico, norme analoghe valgono per quelli delle confessioni religiose di minoranza, dovendosi ritenere decaduta sul punto la legislazione sui culto ammessi del 1929 – 30. Si tratta dell’art. 10 l. n. 517 del 1988 per le Adi; dell’art. 7 l. n. 516 del 1988 per le Chiese Avventiste del Settimo giorno; degli artt. 14 e 27 l. n. 101 del 1989 per le Comunità ebraiche. Quest’ultima legge è particolarmente degna di nota, in quanto la garanzia della tutela della deputatio ad cultum publicum è rafforzata dall’espressa formulazione, che la prevede anche nel caso in cui gli edifici appartengono a privati (art. 14, comma 1o), sia perche´ rende più sicuro il vincolo di destinazione, attraverso il meccanismo della trascrizione del vincolo, nei registri immobiliari. Circa gli edifici di culto di confessioni religiose che non abbiano stipulato intese con lo Stato, questi saranno soggetti alle norme di diritto comune valide per qualsiasi bene patrimoniale.

finanziamento del culto: il culto culto viene incontro all’esigenza di garantire una stabile e continuativa erogazione del servizio di culto ai fedeli. Esso riguarda il sostentamento di persone (i ministri di culto) e la manutenzione, l’apertura o la disponibilità di edifici e luoghi per il culto. Il sistema di culto culto, già enunciato nella sua nuova formulazione dal can. 1274 C.J.C. (il sistema beneficiale al quale era collegato l’intervento statale attraverso il supplemento di congrua, è stato riformato con l’Accordo 15 novembre 1984, l. n. 206 del 1985, nonche´ con la l. n. 222 del 1985), è il modello di cui si avvale attualmente la Chiesa cattolica in Italia, attraverso l’attività di amministrazione svolta dagli Istituti diocesani per il sostentamento del clero. Tali Istituti diocesani, creati entro il 30 settembre 1986 e muniti di riconoscimento civile, sono in rapporto diretto con un istituto centrale, ente ecclesiastico sito in Roma e civilmente riconosciuto con d.m. 19 novembre 1985. Nell’insieme, tali istituti realizzano una complessa organizzazione finanziaria, nella quale l’Istituto centrale ha, tra le altre, la funzione di integrazione delle somme di cui gli istituti diocesani necessitano per svolgere le normali attività di rimunerazione del clero. Gli enti confessionali godono in ogni caso di proventi di diritto privato e di diritto pubblico. Tra le entrate privatistiche si ascrivono le oblazioni (donazioni di modico valore regolate dall’art. 783 c.c.) e i compensi dipendenti da attività connesse a contratti di locazione d’opera. Tra le entrate di diritto pubblico, sono le contribuzioni dello Stato (Ministero del tesoro), versate dalla Cei per il pagamento degli assegni al clero e, dal 1o gennaio 1990, la quota dell’8% Irpef destinata volontariamente dai contribuenti in sede di denuncia dei redditi, alla Cei per scopi di carattere religioso. Anche le confessioni religiose di minoranza sono ammesse a partecipare alla percezione dell’8%, devoluta per interventi sociali e umanitari (art. 31 l. n. 516 del 1988 e art. 22 l. n. 517 del 1988). Le Comunità ebraiche italiane erano finanziate dal contributo annuale a carico degli iscritti (art. 34.1 statuto dell’Unione delle Comunità ebraiche italiane del 1987), ma la l. n. 101 del 1989 ha disposto la cessazione dell’obbligo di contribuzione, venendo meno il corrispondente potere tributario dell’Unione delle comunità .


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