V. clausola, rivalutazione monetaria di rivalutazione monetaria. 
 imposta sulle somme corrisposte a titolo di rivalutazione monetaria:  un  primo  orientamento giurisprudenziale, in mancanza di norme  specifiche,  tendeva a consolidare la tesi per  cui la rivalutazione monetaria su crediti  di lavoro,  seppur  fondata sull’art.  429 c.p.c. e derivante storicamente dalla  previsione  dell’art.  1224, comma  2o, c.c. si distaccava  da  questi  fino ad  assumere  una  propria fisionomia  non  più  riconducibile ai principi  del diritto  comune;  secondo  tale tesi la rivalutazione monetaria non  rappresenterebbe una  forma  risarcitoria, ma una  componente essenziale  del credito  di lavoro  cui si affiancherebbe con  un  meccanismo  analogo  a quello  dell’indennità  di contingenza, al fine di  adeguare la retribuzione nominale  a quella  reale.  Tale  interpretazione trovava il suo fondamento in un  art.  429 c.p.c. che la giurisprudenza del lavoro  leggeva  come  precettivo di una  sorta  di rivalutazione  d’ufficio attribuita anche  senza  l’apposita  istanza.  Sulla  ricostruzione della giurisprudenza si era  ovviamente adagiata  l’Amministrazione finanziaria  che già  sotto  il d.p.r.  n. 597 aveva  affermato l’assoggettabilità  a ritenuta della rivalutazione nel presupposto che le somme  corrisposte, essendo  acquisite  in relazione  ad  un  rapporto retributivo, andavano configurate come  accessorie alla  retribuzione stessa  e, quindi,  al relativo  regime  tributario. Soluzione confermata anche  sotto  la vigenza  del Tuir.  Tuttavia  la sezione  lavoro  della Corte  di Cassazione con  la sentenza n. 498 del 27 gennaio  1989 si era  però discostata da  tali  conclusioni  sostenendo che la circostanza che un medesimo  criterio  di determinazione del maggior  danno  che il lavoratore  abbia  eventualmente subito  per  la diminuzione di valore  del suo credito presieda  sia alla  rivalutazione monetaria ex art.  429 c.p.c. che all’indennità di  contingenza non  deve  far confondere la diversa  natura sostanziale dei due  istituti.  Il suddetto contrasto interpretativo ha  dato  luogo  all’intervento delle  sezioni  unite  che non  hanno  ritenuto di poter  condividere gli argomenti addotti dalla  citata  decisione  della  Sezione  lavoro  ed  hanno pertanto riconosciuto la legittima  imponibilità  della  rivalutazione monetaria dei crediti  di lavoro.  Ha  infatti  affermato che il meccanismo  posto  a presidio degli  interessi  del lavoratore svincola  i crediti  di lavoro  dal generale  assoggettamento delle  obbligazioni  pecuniarie al principio nominalistico della  moneta ed  è  volto  a mantenere la corrispondenza al quantitativo dei beni  reali  fruibili  della  quantità  di numerario in cui essa pecuniariamente si esprime  al momento del suo maturarsi. Pertanto il quid pluris  monetario in cui essa  si traduce al momento della  liquidazione giudiziale  non  può , per  sua  natura essere  un  diversum  dalla  retribuzione. Il credito  di lavoro  rivalutato va, dunque, assoggettato ad  imposta  per mantenere nella  sua  sostanziale integrità  e proporzione il rapporto tra reddito ed  imposta  evitando che il mancato assoggettamento all’imposizione personale dell’elemento rivalutativo si risolva  in una  ingiustificata ridotta tassazione  dell’effettivo reddito, una  volta  percepito dal lavoratore nella  sua interezza. 		
			
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